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  • Gilberto Isella legge San Giovanni della Croce: poesia e slancio mistico

    Gilberto Isella legge San Giovanni della Croce: poesia e slancio mistico

    di Gilberto Isella

    Proclamato santo da Benedetto XIII nel 1726, il monaco spagnolo Juan de la Cruz (1542-1591), al secolo Juan de Yepes Àlvarez, è stato cofondatore dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi. Nel 1567 incontrò SantaTeresa d’Avila, anche lei carmelitana, con la quale collaborerà alla riforma dell’ordine. Dopo diverse vicissitudini (tra cui la prigionia e le innumerevoli vessazioni subìte in un convento di Toledo, a causa di un reato non commesso), soggiornò per breve tempo a Granada (1584), dove concluse la stesura del Cantico Spirituale.

    Autore di poesie e trattati teologici, Giovanni della Croce va ritenuto uno dei maggiori mistici d’Occidente, nonché un poeta spagnolo di primo piano.
    Il suo misticismo è elaborato in forme pregnanti sia nei versi del Cantico, ispirato all’omonimo poema veterotestamentario, sia in quelli della Notte oscura dell’anima, che rappresenta il vertice della sua spiritualità. La «noche obscura», provocata da un eccesso di luce divina che acceca la mente umana, corrisponde a uno stato d’intervallo o di attesa (occorre essere «spogliati e svuotati», come afferma Élemire Zolla) prima di poter raggiungere la purificazione dell’anima e l’incontro con l’Onnipotente. Si tratta di un’esperienza straordinaria ma assai dolorosa: «La divina Sapienza non è solo notte e tenebre per l’anima, ma anche pena e tormento».

    La Coplas al divino, di cui riproduco le ultime tre strofe, propone e sviluppa i temi essenziali del misticismo di Giovanni. Innanzitutto l’aspirazione verso l’alto («m’avventai così in alto») armata di «furore» e di «speranza», che il poeta esprime attraverso la metafora del volo. Il secondo elemento, più problematico, tocca la contraddizione – ma solo di superficie – tra alto e basso. Il desiderio di raggiungere la sommità è talmente forte da provocare nel soggetto uno stato di annichilimento («mi sentivo/ basso, arreso, domato»), che il filosofo Julian Marìas paragona alla morte apparente, associandolo al verbo desvivirse («sviversi»): «Vivo senza vivere in me/ e tanto forte spero/ che muoio di non morire», si legge altrove. Tale è il paradosso mistico.

    Un’ulteriore caratteristica del testo è la dichiarazione trionfale «raggiunsi la preda». L’esperienza vissuta fa pensare in effetti a una «caccia» di segno amoroso e sublime, scandita in modo rituale a conclusione di ogni ottava per testimoniare, nonostante i patimenti sopportati, il buon esito dell’ascesi.

    «Coplas al divino»

    Più salivo in alto
    più il mio sguardo s’offuscava,
    e la più aspra conquista
    fu un’opera di buio;
    ma nella furia amorosa
    ciecamente m’avventai
    così in alto, così in alto
    che raggiunsi la preda.

    Quanto più sfioravo il sommo
    di questo esaltato furore,
    tanto più mi sentivo
    basso, arreso, domato.
    Dissi: non sarà mai di nessuno!
    e tanto in basso rovinai
    che mi trovai così in alto, così in alto
    che raggiunsi la preda.

    In una strana maniera
    Il mio volo superò mille voli,
    perché speranza di cielo
    tanto ottiene quanto spera;
    ho sperato solo nel furore
    e in speranza non fui manco
    se salii così in alto, così in alto
    che raggiunsi la preda.

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