Tutto è partito dalla missione di tre suore, che il 24 giugno 1900 arrivarono a Lugano dalla vicina Como per aprire una casa di cura sul modello dell'ospedale Valduce. Le Suore infermiere dell'Addolorata, fondate nel 1853 da Madre Giovannina Franchi, hanno portato il loro carisma in tutto il mondo, arrivando fino in Argentina. A Lugano il loro servizio continua nella Clinica Luganese. Suor Roberta Asnaghi, amministratrice delegata della Moncucco, riflette sull'impegno della congregazione a partire da questo tempo eccezionale segnato dalla pandemia.
Suor Asnaghi, senza il Coronavirus questo sarebbe stato il tempo dei festeggiamenti.
Avremmo voluto celebrare i 120 anni della Clinica Luganese con una giornata a porte aperte e una Messa di ringraziamento. Purtroppo oggi questi eventi non sono consentiti, ma abbiamo comunque pensato di condividere l'anniversario con il personale della Clinica: dal 22 al 26 giugno vivremo la "Settimana del grazie", raggiungendo gli oltre 800 collaboratori con un piccolo video e condividendo il carisma che ispira ancora oggi le attività della Moncucco.
Qual è il carisma delle Suore infermiere dell'Addolorata?
La nostra fondatrice ha indicato chiaramente come missione della congregazione il servizio corporale e spirituale agli infermi. Al centro c'è il valore della persona, a partire dalla condizione di fragilità del malato che necessita prima di tutto di cure sanitarie. Insieme all'intervento medico, poi, arriva il bisogno di accompagnare anche la dimensione spirituale: da sempre puntiamo al conforto del paziente con l'accompagnamento umano e l'ascolto.
Come è cambiato in questi 120 anni il contributo delle suore?
La Clinica si è evoluta al passo con i bisogni della sanità. Un tratto comune lungo la storia è la sinergia con i laici: già nel 1906 furono attivate le prime collaborazioni. La presenza delle suore si è modificata dal punto di vista numerico: dalle prime tre che diedero vita alla clinica, si è passati a oltre 40 suore infermiere negli anni Cinquanta e Sessanta solo alla Moncucco. Oggi qui siamo in otto, abitiamo nel convento all'interno della Clinica e continuiamo nel servizio di assistenza ai pazienti. Nei decenni passati, il nostro contributo era prettamente professionale, appunto con l'attività infermieristica. Mentre oggi il servizio è più legato alla dimensione pastorale.
Che cosa è cambiato nel modo di assistere i pazienti?
Abbiamo più tempo per stare con le persone e sostenerle dal punto di vista umano. I pazienti hanno bisogno di un sorriso, un atto di gentilezza, a volte anche solo uno sguardo. Lo dico spesso al personale: i malati vanno ascoltati anche con gli occhi, perché quello che non esprimono a parole lo si può intercettare con uno sguardo attento e premuroso. Le persone hanno bisogno di sapere che noi siamo lì per loro, che non abbiamo fretta di andarcene: oggi le suore si dedicano soprattutto a questo, cercando di testimoniare così il cuore grande di Gesù che ama ogni persona. È un impegno decisivo: senza la centralità del lato umano, rischiamo che i malati diventino solo dei numeri. Invece sono prima di tutto delle persone da amare.
L'emergenza Coronavirus ha segnato gli ultimi mesi.
È stato un periodo difficile. L'angoscia più grande è stata quella di vedere i pazienti soli, privati della presenza dei loro parenti. Ti guardavano con questi occhi che chiedevano conforto, una situazione che ci ha molto colpito. Io e il cappellano, don Sergio Carettoni, abbiamo continuato a visitare i malati ma solo su chiamata diretta dei medici, e con tutte le precauzioni. Giusto il tempo di scambiare due parole o portare la comunione a chi lo desiderava: momenti brevi, ma importanti. Le altre suore, più anziane, erano vicine con la preghiera. Proprio da oggi, 8 giugno, riprendono in modo contingentato le visite dei parenti.
Il vostro personale ha affrontato una prova difficile.
Devo ringraziare tutti, perché l'impegno professionale e umano è stato straordinario. I turni erano pesanti, in più c'era lo stress di rischiare il contagio: dal punto di vista emotivo siamo stati tutti messi a dura prova. Ma la risposta è stata ammirevole.
Oggi tagliate il traguardo dei 120 anni: che cosa si aspetta per il futuro?
Non è un tempo facile, soprattutto per il calo delle vocazioni che colpisce tutti gli istituti. Diciamo sempre che il nostro carisma non ha età: confidiamo nei giovani, che possano aprire il cuore al Signore e donare la vita per i fratelli.