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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (19 dicembre 2024)
Catt
  • COMMENTO

    "Signore dei poveri morti"

    di padre Michele Ravetta*

    È il titolo di un grande capolavoro letterario dato alle stampe nel 1943 e scritto da uno di casa nostra, Felice Filippini (1917-1988) da cui voglio partire per questa semplice riflessione in occasione del ricordo dei nostri «poveri morti», espressione tante volte sentita sulla bocca dei nostri anziani.
    Qui l’aggettivo riferito alla povertà non designa necessariamente uno stato di indigenza ma perché la morte, in un qualche modo, ci rende tutti poveri, umili perché vicini alla terra – anzi – dentro la terra.
    Ma se in terra moriamo poveri, ricchi saremo in Cielo, dove non avremo bisogno di quelle cose materiali utili alla vita terrena, perché ci basterà per sempre l’amore di Colui che «da ricco che era si fece povero» (2Cor 8, 9).
    Pensare alla morte non è cosa di tutti i giorni eppure quando siamo colpiti da un lutto oppure da una malattia potenzialmente mortale, allora l’eventualità di morire abbatte tutte le nostre certezze umane e ci prostra, rattristandoci all’inverosimile.
    Certo, sono passati i tempi di quando si tuonava dai pulpiti il Memento mori di squisito gusto quaresimale ma forse, chi ci ha preceduti, aveva l’idea della morte un po’ più vicina alla quotidianità che non l’uomo moderno che cerca in tutti i modi di prorogare il più possibile la nostra umana data di scadenza oppure, per ovviare semplicisticamente al problema dell’invecchiamento o della fatica del vivere, organizza la propria dipartita, togliendo alla vita stessa il privilegio di decidere quando concludere un’esistenza.
    La Chiesa, da oltre duemila anni, è portatrice di una grande novità: la morte non ha più l’ultima parola sulla vita e nemmeno la sofferenza alleviata, per quanto possibile, dalle terapie antalgiche eticamente sostenibili come le cure palliative.
    Dovrebbe risuonare più spesso nelle navate delle nostre chiese l’esclamazione che cantiamo nel tempo di Pasqua: «Surrexit Dominus vere!»: è risorto come aveva promesso e perché lo aveva promesso all’umanità, così da consegnare all’uomo di tutti i tempi una chiave di lettura per il vivere e morire, dove l’umana disperazione cede il passo alla speranza.
    Anche la morte ha assistito, inesorabilmente, ad una sua mutevolezza: dalla testimonianza resa quale il martirio, alla paura portata dalle antiche pestilenze, per poi passare alla morte pubblica delle esecuzioni capitali in piazza, alla morte «in famiglia» delle salme esposte in casa, antagonista affaticata delle moderne ed anonime camere mortuarie; infine, il duello tra cure palliative e suicidio assistito.
    Morire tranquilli nel proprio letto è ormai diventato un lusso. Alla fine di tutto e per tutti, c’è lo stop obbligatorio del cimitero, almeno per chi lì riposa. Da bambino leggevo sul cancello del cimitero al paese paterno questo appello a fare memoria dei nostri poveri morti: «Ciò che noi siamo già, voi lo diventerete. Chi dimentica noi, dimentica se stesso».

    * cappuccino

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