Gesù mangiava «a scrocco», ma da semplice invitato a tavola ne diventava il protagonista. È questa la tesi di fondo, solo apparentemente ridanciana, dello spettacolo omonimo portato in scena lo scorso martedì al Teatro Foce di Lugano da Roberto Albin. Sul palco, a mettersi a nudo, anzitutto l’attore stesso, pronto a dichiarare di aver voluto, a suo modo, interpretare il Vangelo e alcune scene in particolare, a partire dalla propria esperienza di fede profonda, dunque nel ruolo, «oggi scomodo», ammette, dell’«attore credente». Ma da buon napoletano, Albin ricorda anche che «a Napoli ridendo si dice la verità», sicché anche lo spettacolo è stato pensato per permettere «un incontro rinnovato» con Gesù attraverso il velo di un’ironia, mai dissacrante ma anzi volta a sottolineare i passi più belli del Vangelo, anche nella loro paradossalità. Tra questi «paradossi» ritroviamo le nozze di Cana, «solo tre giorni dopo la chiamata dei primi discepoli», ricorda Albin, dunque momento di disvelamento anche per loro. Mentre era usanza tra gli sposi, durante la festa di nozze, annacquare il vino rimasto per allungarlo, Gesù produce centinaia di litri di vino.
A questo proposito, Albin rilancia una riflessione teologica profonda: con il suo gesto, «lui, Gesù, che è semplicemente l’invitato, mostra che il vero sposo è lui», sposo «dell’umanità. Entra nella realtà umana, nei cuori e nelle mente teneramente ed è grazie a questi gesti di condivisione che la gente si accorge che vale la pena dargli retta. Cana è il primo segno: primo perché rivela la natura dei miracoli di Gesù, e segno, perché segna irrimediabilmente, in primis, la vita dei discepoli, ponendoli davanti a una scoperta che apre loro il futuro». Insieme a qualche gag, la recitazione si intercala con la lettura e la messa in scena di alcuni brani tratti dal volume che ha ispirato l’intero spettacolo, appunto «Gesù mangiava a scrocco» (ed. San Paolo) di padre Alfonso Longobardi, confratello dei Minimi di S. Francesco da Paola.
Ma dietro la risata, uno sguardo di contemplazione: «Gesù fu semplice, disponibile: ringrazio Dio Padre che lo ha voluto così. Mangiare e evangelizzare: a tavola condividi, puoi parlare apertamente, confidarti: ti fa stare bene. Così immagino la compagnia di Gesù. Il Regno di Dio era lì, in quei cuori di pietra che si convertivano e diventano carne». La legge ebraica prevedeva che ci si purificasse prima di toccare cibo; i discepoli, come racconta il Vangelo, vengono redarguiti proprio per prendere il cibo senza lavarsi le mani. Questo aspetto è emblema del fatto che «la fame sgretola ogni rituale di sorta, sgretola la morale. Chi ha fame sa di non essere autosufficiente. È simbolo, tale condizione, della condizione umana, il sapersi abitati da un’insufficienza che, fondamentalmente, è uno stato di beatitudine. È a quel punto che la misericordia ti viene incontro. Il bene si svela a chi è affamato…anche se non hai lavato le mani», chiosa Albin. E prosegue: «Chi è sazio si auto-esclude dalla gioia di ricevere. È la morale della parabola del Figliol prodigo, in cui la decisione del figlio maggiore, al ritorno del fratello minore, è quella di rimanersene in disparte e di non festeggiare ».
Dalle parabole lo spettacolo volge infine al momento della Passione, «frutto di quel suo essere al mondo per servire». Il cerchio si chiude: Gesù ha lasciato che a Cana non mancasse cibo; così infine lascia che all’uomo di tutti i tempi non manchi mai più nulla. Un racconto e una verità appassionanti, fatto – conclude Albin – «per audaci che non si fermano alle apparenze ma che invece gustano la meraviglia di un incontro con Gesù», un incontro «che spero di avervi fatto vivere in modo nuovo».
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