Un incontro tra chi ha a cuore la vita delle persone e il loro diritto ad avere un'esistenza piena. Un incontro tra chi denuncia la violenza della guerra con il conseguente devastante impatto sui civili, compreso quello delle migrazioni forzate. Argomenti che Papa Leone XIV ha affrontato sin dall’inizio del suo pontificato e sui quali oggi si è confrontato con Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, ricevuto dal Pontefice a pochi mesi dalla conclusione del suo incarico, il prossimo 31 dicembre.
Filippo Grandi, come è andato l'incontro con il Papa?
Questo primo incontro con il Santo Padre per me e per l’organizzazione Unhcr è stato molto positivo e direi anche molto chiaro sulla questione rifugiati, migranti, movimenti di popolazione. Il Papa resta, come il suo predecessore, molto impegnato su questo e abbiamo discusso dell’importanza di questo impegno. Abbiamo anche discusso naturalmente delle crisi che attraversano il mondo, che lo preoccupano e che ci preoccupano. Dalla Palestina all’Ucraina, alle numerose crisi africane, al Myanmar in cui sono appena stato e così via. E anche le questioni diciamo di crisi migratoria in America Latina, che è un continente che il Santo Padre conosce perfettamente. Quindi, è stato un incontro molto proficuo con il capo della Chiesa cattolica che ho sentito interessato, informato e impegnato.
Il Papa nel libro che è uscito oggi in Perù "León XIV: ciudadano del mundo, misionero del siglo XXI", tra i tanti argomenti trattati, esprime la sua grande preoccupazione per come gli Stati Uniti si stanno comportando nei confronti delle migrazioni e lui riporta di averlo riferito al vicepresidente Usa Vance…
Abbiamo discusso dell'impatto delle politiche di questa amministrazione su questa questione e sulle organizzazioni come la nostra che se ne occupano. Ho riferito al Papa, su sua richiesta, circa l’impatto che per esempio sta avendo la riduzione molto consistente degli aiuti umanitari del governo degli Stati Uniti, non soltanto verso l’Unhcr, ma anche verso altre organizzazioni umanitarie, verso tutto il sistema degli aiuti. Riduzione che però, come ho chiarito al Papa, e come ho spesso detto anche pubblicamente, non è dovuta soltanto agli Stati Uniti, ma anche a molti Paesi europei come la Germania, la Francia, il Regno Unito, non l’Italia, ma altri Paesi europei hanno considerevolmente ridotto gli aiuti, quindi ci troviamo di fronte a una crisi finanziaria molto forte che non ci permette più di fare tutte le cose che facevamo prima. Abbiamo anche condiviso l’opinione che questa riduzione degli aiuti ha anche delle contraddizioni. Per esempio, i governi dei Paesi europei o gli Stati Uniti dicono che la pressione migratoria va ridotta alle loro frontiere, e questo si sente tutti i giorni. Però, se diminuiscono anche gli aiuti nei Paesi dove queste persone sono più numerose, è chiaro che ci sarà meno incentivo a restare dove sono e più movimento di popolazione. Io non sono mai stato un grande fautore di questo argomento: meno aiuti più movimenti, ma ora lo vediamo. Ho fatto al Papa l’esempio del Ciad, dove fino all’anno scorso gli aiuti americani rappresentavano più del 50% degli aiuti internazionali. Adesso non sono stati cancellati, ma sono stati ridotti di molto, e questo anche dagli europei. È chiaro che le persone che continuano ad arrivare dal Sudan sono centinaia di migliaia ogni settimana, soprattutto dalla zona del Darfur, persone in condizioni terribili, fisiche e morali, prima un minimo di assistenza in Ciad potevamo fornirla. Il Ciad li lascia entrare, è un Paese poverissimo ma li lascia entrare, però ci chiede di aiutarli a sostenere queste persone. Possiamo farlo, ma su scala molto ridotta. Cosa succede quindi? I trafficanti di persone, i predatori di queste persone, che sono molti abili dal punto di vista dei loro affari, sono già tutti in questa regione e convincono le persone che arrivano a muoversi in Libia, e la Libia poi sappiamo che è il ponte verso l’Europa. Quindi, questa riduzione degli aiuti, a parte i suoi aspetti morali e umanitari molto gravi, è anche molto controproducente dal punto di vista degli interessi degli Stati che sono così sempre preoccupati, se non ossessionati, dall’arrivo delle persone.
Lei ha accennato che tra i temi con il Santo Padre c'è stata anche la situazione in Palestina. A Gaza vediamo tutti i giorni quello che accade, ma l’Unhcr non è presente …
Occorre fare una piccola precisazione: l’Unhcr non è presente non perché non voglia essere presente, ma perché per questioni di mandato e di responsabilità delle varie organizzazioni, non ha un mandato specifico sui rifugiati palestinesi. Questo spetta all’Unrwa, che è una organizzazione sotto molta pressione, una organizzazione che ho guidato io stesso per diversi anni e che conosco bene. Ed è quindi per questo che non siamo presenti. È difficile usare parole per descrivere la situazione, ma diciamo che condividiamo lo sgomento e l’orrore. Queste sono le due parole che più si addicono: sgomento e orrore per quello che sta accadendo a Gaza, per il massacro, per la pressione che si fa sui civili, per espellerli dalle loro abitazioni e dalle loro città, in una piccola area, la Striscia di Gaza, da cui non possono uscire, quindi è un dramma a multipli livelli che si sta consumando, per non parlare dei morti, dei bambini, di coloro che perdono la vita cercando di ottenere gli aiuti, a cui si proibisce l’ingresso. Insomma, è una lista lunghissima di orrori, di gravissime violazioni del diritto internazionale e di preparazione di una situazione che per decenni, per generazioni, avrà un impatto catastrofico sui palestinesi, ma perseguiterà anche Israele e l’umanità intera in termini di responsabilità alla quale non abbiamo saputo far fronte. Quindi, e ora lo esprimo con le mie parole, il Papa ha condiviso il suo profondissimo dolore per quello che sta succedendo, del resto ne ha parlato quasi tutti i giorni, negli ultimi tempi, in modo molto chiaro. Purtroppo tutti questi appelli che sono stati fatti per il cessate il fuoco, per il rilascio degli ostaggi, per tutto quello che sappiamo che deve essere fatto, sembrano cadere nel vuoto, e nel frattempo la tragedia si sta consumando, è quasi consumata. E poi c’è la questione anche della Cisgiordania, non è soltanto Gaza, perché il via libera ormai completo alla colonizzazione da parte dei coloni israeliani è molto chiaro, quindi un’altra violazione deflagrante del diritto internazionale, perché non si può occupare un territorio senza avere un accordo di pace che prevede certe misure. E quindi è chiaro che tutto questo continua. Io ho passato diversi anni della mia vita in Palestina, nel passato. Ci sembrava difficile allora il dialogo, il negoziato, la difesa dei diritti dei palestinesi, la critica dell’occupazione, ma siamo ormai a dei livelli molto molto più gravi e molto superiori.
Lei è appena rientrato dal Myanmar una delle altre gravi crisi sulle quali l’attenzione del Papa è sempre accesa. Che cosa sta accadendo?
Io tengo a dirlo, proprio a dirlo apertamente: la Santa Sede è uno dei pochi luoghi al mondo dove io come altri miei colleghi, parliamo di crisi largamente dimenticate o trascurate e dove c'è riscontro, c'è interesse, c'è desiderio di impegnarsi, c'è impegno. Questa è la mia ultima visita a Roma, in Vaticano, come Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. Ma voglio dirlo che questo è importante, questa attenzione - questo l’ho detto al Papa - questa sensibilità, questa voce in favore di chi soffre, sono di una importanza straordinaria da parte della chiesa cattolica e speriamo, e sono sicuro come ho detto all’inizio che continuerà con Papa Leone come è stato con Papa Francesco. Il Myanmar è una di quelle crisi che sembrano quasi senza soluzione, cioè un’autorità che è arrivata al potere attraverso un colpo di Stato, quindi non è riconosciuta internazionalmente, che governa una parte del Paese, mentre il resto è sotto il controllo di diversi movimenti etnici, nazionali, subnazionali, insomma una complessa galassia di gruppi armati che si battono contro il governo centrale, si battevano già prima, ma adesso con queste autorità post-golpiste c’è una recrudescenza dei combattimenti, con utilizzo di mezzi aerei, di bombardamenti aerei da parte delle autorità centrali, quindi con perdite di vite umane civili moltissime, ma anche da parte dei gruppi armati ci sono diversi abusi. L’Unhcr si occupa di sfollati, di questioni umanitarie, abbiamo anche un dossier molto particolare in Myanmar che è quello della minoranza musulmana dei Rohingya, che in parte sono fuggiti in Bangladesh, dove vivono in condizioni molto difficili nei campi d'accoglienza, ma in parte sono rimasti in Myanmar. Ed è una minoranza delle più marginalizzate e delle più sfortunate, non so che altro termine usare, del mondo contemporaneo, perché hanno sofferto discriminazione sotto tutti i governi precedenti del Myanmar e adesso la zona in cui vivono è occupata da uno di questi gruppi armati e lui stesso abusa la minoranza. Quindi, non sembra che il cambiamento delle sorti politiche della loro regione cambi il loro destino di essere una minoranza perseguitata, marginalizzata e neanche riconosciuta.
I Rohingya sono il gruppo di persone che combinano allo stesso tempo la caratteristica di essere rifugiati e apolidi perché non hanno la nazionalità, perché non gli è riconosciuta. Quindi, io ho parlato a queste autorità di fatto come organizzazione umanitaria, noi parliamo a tutti, a chi controlla questi territori. La settimana prima ero a Goma a parlare con il gruppo M23. Quindi per noi è importante parlare con tutti, cercando di ripristinare il dialogo, soprattutto come messaggio immediato di cessare l’impatto sui civili. Ma non sono molto ottimista, purtroppo le influenze internazionali sono complesse in Myanmar. Non è un Paese dove è facile fare leva su interessi internazionali. È un Paese molto isolato, molto autarchico, in un certo senso, quindi difficile. Il mondo è ormai una costellazione di crisi. Perché ci sono così tanti rifugiati oggi nel mondo, oltre 120 milioni? Perché i conflitti sono diventati senza limiti nei confronti dell’impatto sui civili, nel senso che anche quelle fragili barriere che il diritto internazionale riusciva a creare, seppur non imporre, sta diventando un argomento che perde trazione, che perde impatto. E quando poi ci sono situazioni come l’Ucraina o Gaza, con Stati potenti come la Russia e Israele, che perpetrano queste violazioni in piena impunità, questo crea un contesto di impunità globale, nel quale gruppi molto meno importanti e meno potenti, però nel loro piccolo possono causare danni inenarrabili alle popolazioni civili. Ecco perché la gente fugge. È sempre fuggita dalla guerra, ma fugge di più e più rapidamente, con più terrore oggi che la guerra è condotta in questa maniera, ignorando completamente i diritti delle persone civili, e questo è gravissimo. Le violazioni dei diritti non sono solo gravi in sé, ma lo sono nel precedente che creano globalmente, specialmente oggi.
E allora, per concludere le chiedo quale è lo stato di salute del diritto umanitario internazionale?
Il diritto umanitario internazionale è attaccato a una flebo, che alcuni di noi cercano di mantenere aperta, ma che rischia di essere interrotta. È catastrofico. Io spero che il pubblico in Europa, almeno in parte dell’Europa, dove viviamo ancora in relativa pace e prosperità e tranquillità, ecco, io spero che il pubblico europeo, e quello di altri Paesi relativamente stabili, si renda conto che la fine, il tramonto, del diritto umanitario internazionale è un grosso rischio oggi, non solo per le popolazioni di Gaza o del Myanmar o del Congo, ma per tutti noi, perché una volta tolte quelle barriere, non c’è più limite alla violenza che può colpire anche noi.
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