La notizia è arrivata oggi: se non ci saranno intoppi dell’ultimo minuto, Papa Leone volerà in Turchia per i 1700 anni dal Concilio di Nicea (27-30 novembre) e poi a Beirut (30 novembre-2 dicembre). È un viaggio atteso, soprattutto dal popolo libanese. Il Libano, un tempo definito “la Svizzera del Medio Oriente”, oggi è infatti l’emblema di una crisi senza fine: economica, politica, sociale. Si tratta di una nazione ferita che sopravvive grazie alla resilienza della sua gente e a un delicato equilibrio confessionale, possibile anche per la coraggiosa presenza dei cristiani.
Anche per questo il viaggio papale non era scontato ma consentirà a Leone XIV di farsi sentire vicino alla crisi di Gaza senza “sfidare” direttamente Israele. E di abbracciare la minoranza cristiana che abita la Terra Santa tutta.
Il contesto economico
Per il popolo libanese, giusto per dare un contesto, la vita è difficilissima: alla rivolta del 2019, la lira libanese ha perso oltre il 95% del suo valore, i risparmi sono svaniti nei conti bancari congelati, la corrente elettrica arriva solo poche ore al giorno. Gli ospedali chiedono pagamenti in dollari, le scuole cattoliche faticano a pagare gli insegnanti, le famiglie scelgono tra pane e medicine. Secondo la Banca Mondiale, tre libanesi su quattro vivono sotto la soglia di povertà. «Ci sentiamo abbandonati», racconta Asma Fahl, giovane madre cristiana di Beirut. «Il latte per i bambini costa come uno stipendio. Mio marito lavora, ma non basta. Siamo rimasti per amore del nostro Paese, ma ogni giorno è una prova». A rendere più fragile la vita quotidiana è la paralisi politica: anni senza un presidente, una sfilza di governi corrotti e incapaci di riforme, istituzioni bloccate da interessi settari e dal peso di Hezbollah, la potente milizia sciita sostenuta dall’Iran. Il Sud del Paese è di nuovo teatro di scontri e la guerra tra Israele e Hamas fa temere un allargamento del conflitto. E aggiunge dolore a dolore. In mezzo a questo equilibrio instabile, il Libano continua a ospitare più di un milione di profughi siriani e palestinesi, con un sistema sanitario e sociale ormai al collasso.
La crisi non è solo economica. È una crisi di fiducia, di speranza, di identità ed è devastante per questa repubblica parlamentare confessionale le cui cariche politiche sono ripartite su base religiosa — il presidente è sempre un cattolico maronita, il premier sunnita, il presidente del Parlamento sciita — affinché tutti siano rappresentati. Qualcosa però si è rotto.
«Ogni giorno salutiamo qualcuno che parte», dice Rita, insegnante di una scuola maronita di Zahlé. «I nostri studenti sognano il Canada o l’Europa. Li capisco, ma mi chiedo: cosa resterà del Libano se tutti lasciano?». Le scuole e gli ospedali cattolici, da decenni spina dorsale del Paese, sono oggi in prima linea per sostenere chi non può più permettersi neanche l’essenziale.
Il patriarca maronita Bechara Boutros Raï lo ha ripetuto più volte: “Senza i cristiani, il Libano perde la sua anima”. Per questo l’annuncio della visita papale è stato accolto come un segno grande. Non solo per i cattolici, ma per tutto un popolo che si riconosce in quell’equilibrio imprescindibile di convivenza religiosa che ha fatto del Libano un unicum nel mondo arabo.
“La visita del Papa ci fa respirare”
«La visita di Papa Leone ci fa respirare», confida padre Georges, parroco di Tiro. «Viene in un momento in cui ci sentiamo dimenticati. Non ci aspettiamo miracoli politici, ma una parola che ridia dignità al nostro dolore». Nelle strade di Beirut i murales ancora portano scritte di rivolta e grida di giustizia, tra i palazzi sventrati dall’esplosione del porto nel 2020 e i caffè dove giovani e anziani discutono di fede, politica, futuro, emigrazione. In questa umanità ferita, la Chiesa resta una delle poche istituzioni credibili, accanto ai poveri, ai malati, ai profughi. Il Papa verrà ad abbracciare tutto questo. «Siamo come l’ulivo», sintetizza efficacemente Maryam, volontaria in una parrocchia che affaccia sul mar Mediterraneo, a Tripoli. «Schiacciati, ma continuiamo a dare olio. Se il Santo Padre verrà davvero, lo accoglieremo con gioia perché sarà un segno che Dio non ha dimenticato il Libano».
La visita di novembre — la prima di Papa Leone in Medio Oriente, ma che segue le storiche visite di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nel Paese dei Cedri— potrebbe in effetti rappresentare un momento decisivo: un gesto di vicinanza a chi resiste nel silenzio, e che richiami la comunità internazionale a un impegno rinnovato per il dialogo e la costruzione della pace in tutto il Medio Oriente. Beirut nella sua fragilità resta un simbolo: quello di una Nazione che, tra macerie e contraddizioni, continua a incarnare la possibilità di convivenza sociale e politica tra fedi diverse. «Il Papa viene a ricordarci che non siamo soli», conclude padre Georges. «E forse questo, oggi, è il miracolo più grande: sapere di non essere dimenticati, di contare ancora qualcosa per qualcuno. Sapere di essere amati a questo mondo».