di Federico Anzini
Una tranquilla domenica d’estate, quella del 6 luglio scorso, si è trasformata in tragedia in un appartamento di Luino. Un padre, 57 anni, è stato ucciso a coltellate dal figlio adottivo. L’uomo, ticinese di Lugano, si era recato con i due figli dalla ex moglie per trascorrere alcune ore in famiglia. Tra le reazioni, vi proponiamo quella di Agnese Salvadé, presidente di Famiglie per l’Accoglienza in Ticino, che invita a guardare - con pudore - il mistero di una relazione ferita e tuttavia piena di significato.
Un dramma familiare senza preavviso
La vittima, un professionista noto nell’ambito della consulenza assicurativa, era giunto da Lugano con i figli per visitare la ex moglie, avvocata specializzata nella difesa dei rifugiati. Secondo le ricostruzioni, tra padre e figlio sarebbe scoppiato un diverbio. Pochi attimi, poi l'aggressione fatale con un coltello da cucina. Il ragazzo, 25 anni, è stato fermato a poca distanza dai carabinieri. Ma il gesto - come affermato anche dall’avvocato difensore Eugenio Losco - non nasce da un risentimento pregresso. «Si è trattato di un diverbio occasionale», ha dichiarato il legale. «Non c’erano motivi di conflitto duraturo tra i due». Per il ragazzo, ora in carcere a Varese, è stata chiesta una perizia psichiatrica per comprendere il contesto psicologico che ha preceduto l’aggressione.
Una storia che interpella
Ma è il commento di Agnese Salvadé a dare profondità alla cronaca. «La notizia ci ha trapassato il cuore», scrive. L’intento della presidente non è quello di spiegare o interpretare, ma restare «in silenzio dentro questa storia». E lo fa parlando non del crimine, ma del mistero della paternità accogliente, di un uomo che aveva scelto consapevolmente di essere padre, di un ragazzo ferito, di un amore che - forse- non è bastato, ma che non per questo è stato vano. «L’uomo ucciso era un padre. Non solo per via legale, ma nella carne», afferma Salvadè. «Aveva scelto di esserci per un figlio già ferito. Aveva detto sì al rischio dell’amore». Non una scelta romantica, ma un impegno concreto, quotidiano, segnato da mille domande e fatiche. Eppure - prosegue - «anche a chi ha scelto con tutto sé stesso capita di domandarsi se ne valga la pena».
Il grido di una ferita
Secondo il commento, ciò che ha scatenato il gesto estremo potrebbe essere qualcosa di più profondo di un semplice litigio: «A volte un figlio rifiuta, scappa, si chiude. L’amore può sembrare insopportabile». Non si tratta di giustificare, ma di guardare «oltre», con quella pietà autentica che non assolve, ma comprende: «Ha fatto qualcosa di terribile. Ma quel gesto sembra gridare un dolore più grande di lui». Una fame d’amore non saziata, un grido disperato di chi forse, nel profondo, teme di non poter essere amato. «Per questo ci viene da abbracciare anche questo ragazzo», scrive ancora Salvadè. «Ogni figlio, anche quello che ha fatto il male più grande, resta un figlio. Resta uno che chiede, anche nel carcere, uno sguardo che non si ritiri».
Il senso del dono, anche nell’oscurità
La vicenda, pur nella sua drammaticità, diventa testimonianza di una verità che sfida ogni cinismo. «Il padre ha dato la vita per suo figlio. Non come un eroe, ma come un padre». È il cuore dell’articolo di Salvadè, che invita a guardare oltre il gesto, oltre la cronaca, per vedere il senso di una vita spesa per l’altro. «La sua vita non è stata vana. È stata data. Ha avuto un senso profondo». E cita Paul Claudel: «Che vale la vita, se non per essere data?». Anche la morte, in questa prospettiva, diventa seme: «Quando qualcuno dà tutto, nulla va perduto». La tragedia si trasforma così in memoria viva, in appello a non smettere di credere che ogni ferita può essere fasciata, ogni solitudine abitata.
Non si può camminare da soli
Come andare avanti dopo un dolore così grande? «Non abbiamo una risposta», scrive Salvadé. «Ma crediamo che proprio nella compagnia che nasce dalla fede, nel sostegno reciproco, possa accendersi una speranza». E ancora: «Ci vuole qualcuno che dica: "Non sei solo, non lo sei mai stato"». Anche l’accoglienza, ammette, può diventare una croce. Ma «sappiamo che ogni croce, nella storia cristiana, è promessa di risurrezione». Nulla è perduto, se vissuto nell’amore. Il dolore, anche quello più ingiusto, può portare frutto. Forse non ora. Forse invisibilmente. Ma qualcosa è stato seminato.
Oltre la cronaca, uno sguardo di fede
La tragedia di Luino non è solo una notizia di cronaca nera. È il riflesso di ferite più profonde che segnano le relazioni, l’identità, l’amore. Ma è anche il racconto - tragico, sì, ma potente - di una paternità offerta fino alla fine. Di un gesto d’amore che resiste persino al rifiuto. E nel silenzio che segue il dramma, resta un invito alla misericordia, alla vicinanza, alla speranza. «Ci inginocchiamo davanti a questa famiglia», scrive Agnese Salvadé. «E preghiamo - anche noi, piccoli e fragili - che il dolore si trasformi in misericordia. Che il carcere diventi occasione di verità. Che la paternità continui a generare vita. Anche oltre la morte».