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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (1 novembre 2025)
  • Dove tutto sembra perduto, uno sguardo dona speranza

    di Silvia Guggiari

    Sabato 1. novembre, nel carcere La Stampa di Lugano, verrà celebrato il Giubileo dei carcerati. Mons. Alain de Raemy presiederà la S. Messa e incontrerà i detenuti, nell’anno della speranza in un luogo in cui sembra che la speranza si sia persa. Ma non è così. Per l’occasione, grazie alla collaborazione di fra Michele Ravetta, cappellano delle strutture carcerarie in Ticino, abbiamo intervistato una persona detenuta che sta vivendo un significativo percorso spirituale.

    Qual è la sua storia?

    Sono nato a Varese il 21 dicembre 1968 da una famiglia cristiana e fino ai 14 anni sono cresciuto in un contesto parrocchiale. Una volta diplomato cuoco, la mia presenza in chiesa è stata praticamente nulla. Ciò nonostante la mia fede non si è mai affievolita e quando avevo l'opportunità di frequentare una messa, in qualsiasi chiesa mi trovavo, ci andavo. Ho due figli, maschio e femmina, che oggi hanno 30 e 26 anni e da pochi mesi sono diventato nonno di un maschietto.

    Cosa o chi le ha dato la forza per risollevarsi nei momenti più bui?

    Fra Michele è stato il primo ricollegamento con la Fede cristiana. Una volta arrestato avrei voluto morire, la mia vita era finita, un fallimento totale per me, per i miei familiari, amici... la mia fede vacillava, cercavo delle risposte e non le trovavo, ero arrabbiato. Fra Michele è stato il mio primo punto di riferimento, le sue parole sono state fondamentali per cominciare a prender coscienza dei miei reati.

    Così in carcere ha ripreso un percorso spirituale...

    La Messa domenicale è diventata un appuntamento indispensabile. Ricordo che la prima forte emozione all’interno del carcere l’ho vissuta nel sentire l’omelia di Fra Michele: più volte gli occhi si son gonfiati di lacrime. Dopo un po’ di tempo, mi hanno chiesto se me la sentivo di leggere una lettura: quel ricordo mi emoziona ancora. Oggi occupo con molto piacere anche la mansione del sacrestano e chierichetto. Il mio raccoglimento in preghiera avviene nella mia cella più volte al giorno: le preghiere sono rivolte ai miei cari, alle persone che mi vogliono bene ancora, prego per la buona salute di tutti loro e di me stesso, ringrazio Dio. Prego chiedendo perdono alle persone a cui ho fatto del male e che magari oggi soffrono ancora, leggo testi sacri. Questi sono gli strumenti che adopero per affrontare giorno per giorno le difficoltà che possono capitare in un contesto ove purtroppo tutto è amplificato e quello che succede all’esterno posso solo vederlo come «spettatore» senza possibilità di agire.

    Oggi, come riesce a guardare al futuro con speranza?

    Fra Michele, mia guida spirituale ma anche buon amico, mi ha fatto conoscere una comunità ove potrò andare dopo la mia scarcerazione, dare il mio contributo con la mia professione e continuare il mio cammino spirituale.

    Abbiamo posto alcune domande anche al cappellano per capire meglio il suo ruolo e l’importanza di una guida spirituale all’interno del carcere.

    Fra Michele, come riesce ad entrare in relazione con i detenuti? Su cosa cerca di «lavorare» con loro?

    La relazione, in generale, è un processo che richiede tempo, pazienza e tanta umiltà: incontrare e lavorare con le donne e uomini privati della libertà non segue il normale scorrere del tempo, bisogna aspettare che sia il momento opportuno, si abbia la voglia di raccontare e… di ascoltare, per poi aprirsi bilateralmente al confronto e alla crescita personale e relazionale. Non si dimentichi che anche chi svolge un ministero a nome della Chiesa deve essere aperto al confronto e alla crescita. Si entra in relazioni autentica lasciando fuori dalla cella i pregiudizi, sedersi a livello degli occhi del detenuto, dedicare il tempo necessario da dare alle parole e al silenzio. In alcuni colloqui svolti in carcere, la componente del silenzio è frutto non solo del mondo interiore ma anche della vergogna, la paura, la rabbia e talvolta è l’ossatura dei colloqui, nell’alternanza di parola-silenzio. Si lavora a quattro mani, perché non si entra nella storia di una persona senza dare a propria volta qualcosa di sé; il punto di partenza è l’auto-perdono, farmaco che vuole alleviare il senso di colpa per dare spazio ad un più maturo “ricollocarsi” nella propria storia ed avere uno sguardo più lucido su quanto è accaduto e che ha portato la persona in carcere.

    Il carcere può essere luogo di speranza?

    Il carcere è certamente un luogo di speranza perché si ha la possibilità di fermarsi, pensare e ripensare, desiderare un futuro diverso, imparare a prendersi cura di sé quindi di chi sta attorno e non ricadere nell’errore, attraverso un’autentica rivoluzione del cuore (conversione). In questo percorso, accanto ai professionisti che intervengono nella cura del detenuto, c’è anche il cappellano che, letteralmente, si siede accanto alla vita dell’altro lavorando sulla resilienza e la volontà di meglio comprendere cosa è accaduto e perché. Far leva sui meccanismi personali funzionanti, accettando ed elaborando quelli che sono più critici, il tutto come parte costitutiva della personalità che, di fatto, distingue ogni persona.

    Come vi state preparando al Giubileo diocesano del 1. novembre?

    Il giubileo all’interno del carcere è stato fortemente voluto dai carcerati stessi che hanno proposto la realizzazione di una “porta santa” collocata nella nostra chiesa all’interno del penitenziario, assemblata nel laboratorio di falegnameria e decorata da fiori di panno realizzati dalle detenute nel laboratorio di sartoria. La scelta di celebrare il giubileo in concomitanza della solennità di tutti i Santi è stata una proposta fatta al Vescovo con il desiderio di richiamare tutti alla santità, al di là dei possibili errori commessi. Il Vescovo, molto vicino alla popolazione carceraria così come i Vescovi emeriti che regolarmente ci rendono visita, ha accettato e fissato questa data nel calendario celebrativo diocesano. Sarà per noi un grande momento di festa e di santità. Da mesi ci prepariamo in ogni domenica con la recita della preghiera del carcerato, nel mentre si passa attraverso la “porta santa”, segno concreto della volontà di cambiare vita.

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