di Markus Krienke*
Una tregua che è promessa di pace: è una speranza concreta con la quale inizia il 2025, resa possibile dallo «zampino» di Trump e dall’isolamento in cui ormai si è trovato Hamas, dopo il venir meno dell’Hezbollah, dell’Iran, della Siria di al-Assad. Certamente Hamas – gruppo terroristico con l’intenzione di radiare Israele dalla mappa del Medioriente – non è sconfitto, e questa è la riserva israeliana sulla pace. Inoltre non si sa a che punto stia il programma nucleare iraniano. Al contempo Israele non è ancora disposta a riconoscere uno Stato palestinese, mentre la sua destra politica parla già della ripresa del programma degli insediamenti. Ma le condizioni per il cessate il fuoco, cioè il processo di pace a tre tappe, sono state accettate da Netanyahu, con il rilascio di oltre mille prigionieri, tra cui terroristi pericolosi condannati a decine di ergastoli ciascuno.
Nella consapevolezza, dunque, che si stanno facendo dei grandi passi di impegno verso un futuro tuttavia incognito, si impongono principalmente tre riflessioni circa la speranza per una pace effettiva e duratura.
La diplomazia internazionale, qualora volesse essere efficace, non si fa con i meri appelli e non bastano nemmeno piani perfettamente elaborati – come quello di Biden, sul tavolo sin dal mese di maggio. Ci vuole il peso politico di coercizione, certamente dosato e indirizzato con misura. Trump, sotto questo punto di vista, si è rivelato un «mad man» con idee molto chiare. Allo stesso momento, sta sotto gli occhi di tutti che mentre la potenza ordinatrice internazionale degli Stati Uniti si è indebolita – non essendosi imposta per mesi, non sarà certamente riportata ai vecchi ranghi da Trump – l’Europa è la grande assente.
Inoltre, Israele è riuscito a imporsi in una guerra a sette fronti nel Medioriente, mentre ciò che rimane non è solo il dubbio se e in quali termini potrà garantire anche in futuro un rifugio sicuro per la vita ebraica – il 7 ottobre non era riuscito ad evitarla – ma anche il più grave danno di reputazione internazionale nella sua storia. E l’aumento sensibile di antisemitismo in Europa (anche al netto di manifestazioni pro-palestinesi non antisemite) è un’ulteriore triste conseguenza di questa guerra. La quale pone però a noi europei la domanda urgente su dove ci portano le nostre – legittime – manifestazioni in piazze e università, pro-palestinesi e pro-Hamas.
Infine, la pace dipenderà dall’ordine politico che si riuscirà a dare alla regione, già a partire dalla seconda fase della tregua (ritiro completo di Israele e rilascio di tutti gli ostaggi sotto un’amministrazione internazionale della Striscia di Gaza, forse sotto Abu Mazen e coinvolgendo vari Stati arabi) ma poi soprattutto come garanzia di pace. Uno Stato palestinese sembra una conditio sine qua non dal momento che lo richiede anche l’Arabia Saudita con la quale Israele dovrà finalmente stringere quell’accordo di Abramo che era fallito con il 7 ottobre e che costituisce la priorità per Trump. Ma già in tale «fase due» si comprenderà il ruolo che giocherà il principale oppositore alla pace nella regione, ossia Hamas.
Sopra il Medioriente è sorto un arcobaleno di speranza, che non è attesa passiva, ma lettura critica del presente e impegno continuo.
* Docente di Etica sociale cristiana e Dottrina sociale della Chiesa alla FTL e Direttore della Cattedra «Antonio Rosmini»
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