di Silvia Guggiari
Ha suscitato grande dibattito politico in Svizzera, e anche in Ticino, la vicenda dei bambini di Gaza da accogliere nelle strutture sanitarie nazionali. Per il momento, i bambini arrivati sono sette, una delle quali è tuttora all’ospedale di Bellinzona. Approfondiamo la questione con il dottor Giovanni Pedrazzini, primario di cardiologia del Cardiocentro di Lugano, tra i firmatari della lettera consegnata alle autorità federali a giugno scorso per chiedere maggior sensibilità sulla situazione a Gaza.
Professor Pedrazzini, perché l’idea di accogliere venti bambini di Gaza ha suscitato grandi polemiche?
Non c’è una spiegazione chiara; se guardiamo al passato e alle crisi umanitarie, da diversi Paesi sono arrivati rifugiati e la Svizzera non si è mai posta la domanda se accoglierli o no perché rientrava nel diritto e nella nostra tradizione. È chiaro che il conflitto di Gaza con Israele ha sollevato sentimenti contrastanti e molta tensione anche sulla questione dell’accoglienza. Da una parte c’è il desiderio di accogliere i bambini e le loro famiglie, dall’altra c’è questo, per me, inspiegabile sentimento di paura che dice che è spinge a non tendere la mano e a non offrire accoglienza né cura.
Io credo nella tradizione svizzera di grande accoglienza, ma mi rendo conto purtroppo che qualcosa sta cambiando e non nascondo la mia preoccupazione. Non ci sono dubbi che questa brutta e tristissima storia abbia scatenato sentimenti contrastanti, nuovi in un certo senso per la nostra storia, e una diffidenza crescente, che, ribadisco trovo non solo inspiegabile ma anche ingiustificabile. Un medico non si pone la domanda da dove venga un paziente, ma si impegna sempre a curarlo, indistintamente dalla sua provenienza. Henry Dunant, tra i fondatori della Croce Rossa, ha affermato che non ci sono feriti amici o nemici, ma ci sono solamente dei feriti. Di fronte a questa situazione mi sarei aspettato che la Svizzera accogliesse senza riserve, ma non è stato così. Di fronte ad una bambina o un bambino ferito non ci sono domande, c’è solo aiuto e accoglienza.
Tra le titubanze c’era che accogliere venti bambini non avrebbe fatto la differenza…
Credo che l’accoglienza non può avere un valore numerico, ma è rivolta a ogni singola persona: «Salvare un bambino – diceva Dominique Lapierre – è salvare il mondo». È chiaro che ce ne sono molti da curare, ma vedo una certa ipocrisia in coloro che si limitano a dire che è inutile curare solo venti bambini. Personalmente spero che ne arrivino ancora tanti perché queste vite porteranno nei nostri ospedali speranza, motivazione, senso di appartenenza.
A giugno, il suo nome è apparso tra i firmatari della presa di posizione consegnata alle autorità federali per sensibilizzare sulla situazione di Gaza. Cosa l’ha spinta ad aderire a questa presa di posizione?
Mi ha spinto un sentimento genuino e apolitico nei confronti di un governo che sembra totalmente passivo di fronte a queste situazioni. Vedo l’inerzia della politica in uno Stato che in passato aveva fatto la difesa dei diritti civili una delle sue armi di battaglia. La Svizzera si è sempre battuta in nome dei grandi valori umanitari, è parte della nostra storia e del nostro passato e del nostro concetto di neutralità. Oggi la Svizzera si è enormemente indebolita politicamente perché ha perso la sua credibilità soprattutto nelle crisi umanitarie. Di fronte a questa passività del governo abbiamo sentito l’urgenza di scendere in campo come medici ma non solo, per chiedere di agire in nome della tradizione svizzera in una situazione di gravissima crisi umanitaria.
Come valuta l’operato della Chiesa?
La Chiesa in questo momento si è alzata a difesa delle vittime e lo ha fatto senza paura. A prescindere da un discorso di fede, sono colpito e stupito da figure come il card. Pizzaballa che più volte si è recato a Gaza o papa Francesco che ogni giorno chiamava la parrocchia. In questa storia, quello che apprezzo enormemente è che la Chiesa finalmente ha accettato di «sporcarsi le mani» difendendo i diritti civili, senza sentimento antisemita, senza alcun pregiudizio politico.