«L’Amazzonia è una donna.
Una donna stuprata. Ha negli occhi il colore della notte e i capelli lisci come
gli strapiombi delle Ande. A Madre de Dios era scesa guardandoci senza dire una
parola. Un urlo di silenzio. Volevamo incontrarla, poterla guardare negli
occhi. E siamo andate. E siamo entrate in quegli occhi. Queste pagine ne sono
la voce. Perché l’Amazzonia è vicina. È fuori e dentro la vita di tutti».Inizia con questa
citazione il libro-reportage delle giornaliste di “Avvenire” Stefania Falasca e
Lucia Capuzzi, dal titolo “Frontiera Amazzonia”, uscito in questi giorni per le
edizioni EMI. Più che un inizio, queste parole ci raccontano di una
continuazione. O meglio: la fedeltà ad una promessa stretta durante il viaggio
di papa Francesco in Cile e Perù, che le due giornaliste hanno seguito da
inviate di “Avvenire”, dal 15 al 22 gennaio dello scorso anno. Una promessa che
ha preso forma a Puerto Maldonado, nel Coliseo Madre de Dios: quando il Papa
indirizzandosi ai diversi popoli originari presenti ( oltre una ventina) ha riconosciuto
nei loro lineamenti diversi, da un lato “l’enorme ricchezza biologica,
culturale e spirituale” che la foresta amazzonica racchiude in sé, e dall’altro, le profonde ferite che dilaniano l’Amazzonia e i suoi
popoli. E’ questa promessa che le ha portate a scoperchiare, una dopo l’altra,
le piaghe che affliggono questa enorme regione che si estende per 7,8 milioni
di chilometri quadrati e abbraccia nove
Paesi dell’America Latina: il Brasile ( 67%), il Perù (13%), la Bolivia ( 11%) , la Colombia
( 6%), l’Equador ( 2%), il Venezuela (1%) e la Guyana, il Suriname e Guayana
francese ( insieme per l’1%). Un territorio che non comprende solo enormi foreste
abitate dal 50% delle piante e degli animali del pianeta, ma anche un’immensa
periferia composta da centinaia di migliaia di poveri, accatastati in enormi bidonville,
ai bordi delle sue città.Stefania Falasca
e Lucia Capuzzi sono dunque entrate negli occhi di quella “donna stuprata” e
hanno dato voce al suo “urlo silenzioso” e oggi “Frontiera Amazzonia” a poche
settimane dall’inizio del sinodo amazzonico, ci racconta questa realtà, spiegandoci
attraverso quanto hanno potuto raccogliere sul terreno, perché questo sinodo è
oggi così importante.Nove capitoli per
altrettanti temi che hanno quale denominatore comune “l’intervento predatorio
da parte di attività umane irresponsabili”: come scrive nella prefazione al libro, il
cardinale Claudio Hummes, presidente della Rete ecclesiale panamazzonica e
relatore generale al sinodo sull’Amazzonia.
Come è accaduto, per esempio, nelle province di Orellana e Sucumbìos quando “nelle
vene di questa terra immensa, protetta dalla pelle verde-cangiante della
foresta” è stato scoperto il petrolio, che ha cambiato per sempre il suo volto e
la vita di chi vi abita. Racconta William Lucitante, il rappresentante degli
indigeni cofàn: ”Da bambino mi bagnavo nelle acque del fiume Aguarico, tra le
chiazze di petrolio. I miei amici ed io giocavamo con il bitume. Con il greggio
che colava ci dipingevamo la faccia e il corpo. Non avevo idea di cosa fosse.
Allora ho cominciato a fare delle domande ai miei, ma nemmeno loro
sapevano”. O come è successo negli anni
’90 del secolo scorso, con il boom della soia che ha letteralmente divorato la
foresta, finché grazie ad un ‘intensa campagna di sensibilizzazione non è stata
firmata la “moratoria della soia” che ha messo un parziale freno alla sua
coltivazione.Ma Falasca-Capuzzi
hanno saputo e voluto cogliere anche le lotte coraggiose di uomini e donne che
hanno resistito, cercando di non permettere che le sfavillanti ricchezze di cui
è provvista l’Amazzonia, divenissero paradossalmente il motivo della sua
povertà. Come “Nemonte, o Nemo, donna dal fisico minuto, enormi occhi scuri
sottolineati da un velo di henné arancione” che con la carta bollata è riuscita
a bloccare l’avanzata della frontiera petrolifera nel territorio del suo
popolo, gli Waorani.”Resta, infine, da
rispondere all’ultima delle domande che le due giornaliste hanno sollevato
nella citazione in apertura del libro. Perché queste tematiche così lontane
dalla nostra esperienza rendono
l’Amazzonia “dentro e fuori la vita di tutti”?A farlo è il cardinal Hummes, nella prefazione al libro. E lo fa con le parole di una canzone brasiliana che dice: “Tudo està interligado, come se fòssemos um, tudo està interligado nesta casa comun” ( tutto è interconnesso, come se fossimo una cosa sola, tutto è interconnesso in questa casa comune”). In questa “casa comune”, che occorre abbracciare attraverso quell’“ecologia integrale”, di cui ci parla papa Francesco nell’enciclica “Laudato si”, il grido dei poveri e quello della natura, sono lo stesso e unico grido. Perché, prosegue il cardinale: “non esistono due crisi: una sociale e una ambientale, ma un’unica grande crisi socio-ambientale che richiede un approccio integrale, per contrastare la povertà, ridare dignità ai poveri e prendersi cura della natura”. Per questo l’Amazzonia assume oggi un ruolo centrale per noi tutti e, con la sua natura lussureggiante e magnifica, lo scempio degli incendi che la stanno consumando, le sue tante etnie spinte a vivere in bidonville ai margini della foreste, con i neo-colonizzatori da un lato e dall’altro, chi per difendere la sua terra, ha dato la vita; diventa il paradigma di quanto abbiamo di più bello e di più fragile. “Non possiamo perdere l’Amazzonia” conclude il cardinale, “Non possiamo sbagliare qui come Chiesa. E non dobbiamo e non possiamo arrenderci.”
Corinne Zaugg