di Gilberto Isella
Santa Caterina (1347-1380), figlia del tintore senese Jacopo di Benincasa, è stata una delle voci più fulgide della mistica italiana trecentesca e non solo. Fin da piccola desiderosa di votarsi al Signore, nel 1363 riuscì a farsi ammettere nell’ordine delle Mantellate domenicane. In quegli anni impiegò parte del suo tempo a soccorrere malati e bisognosi, ma già maturavano in lei quegli ideali di riforma della Chiesa che presto diverranno l’argomento centrale delle Lettere. Pagine passionali e drammatiche, che riflettono alla perfezione il clima del secolo. Corruzione, disordini sociali, e soprattutto, per quanto concerne la Chiesa, la delicata questione della sede papale trasferitasi ad Avignone. Fu in parte proprio grazie alla missione di Caterina nella città francese, affrontata con grande coraggio e determinazione, che Papa Gregorio XI si decise a tornare a Roma nel 1377.
Mossa in primo luogo dal desiderio di convincere attraverso i sentimenti, Caterina non è un intellettuale cristiano avvezzo a citare in ogni momento i testi sacri. Le basta riferirsi, nei punti cruciali, ai Vangeli e alle Lettere paoline. Nell’epistolario, ma anche nel Dialogo della divina dottrina, mette in campo un sapere teologico ridotto ai suoi nuclei fondamentali: verità divina (“vestiamoci della verità” scrive al suo padre spirituale Raimondo da Capua), bene e male, amore e carità. Un sapere talora eclettico, come qualcuno ha osservato, tale comunque da irradiarsi in un’ampia e densa tramatura morale.
Caterina condanna, riscontrandolo anche in alcuni destinatari delle missive (vedi i tre cardinali italiani allontanatasi da Papa Urbano VI), l’infiacchimento delle coscienze nei confronti del Male. Rimproverandoli per la loro ingratitudine, e chiamando in causa la cecità umana, la Santa usa espressioni forti: “Quanto è laida la vita nostra corporale, che vivendo, da ogni parte del corpo nostro gittiamo puzza! Dirittamente un sacco pieno di sterco, cibo di vermi, cibo di morte”. Altrettanto intensi appaiono i termini impiegati in una lettera indirizzata a padre Raimondo, dove Caterina evoca l’esperienza salvifica del martirio. In questo caso la parola-chiave è “sangue”: Il sangue di Cristo associato a quello dei martiri, poiché sono stati i martiri, “col sangue loro, sparto per amore del Sangue”, a fondare “le mura della santa Chiesa”.
O sangue dolce, che resuscitavi i morti! Sangue, tu davi vita, tu dissolvevi le tenebre delle menti accecate dalle creature che hanno in loro ragione, e davi lume. Sangue dolce, tu univi i discordanti, tu vestivi li nudi di sangue, tu pascevi li affamati, e daviti in beveraggio a coloro che avevano, e hanno, sete del sangue; e col latte della dolcezza tua notricavi [nutrivi] i parvoli, che sono fatti piccioli per vera umilità e innocenti per vera purità. O sangue, e chi s’inebbria in te? […] Adunque, carissimo e dolcissimo padre, spogliànci [spogliamoci] di noi e vestiànci della verità; ed allora saremo sposi fedeli. Io vi dico che oggi voglio incominciare di nuovo, acciocché i miei peccati non mi ritraggano da tanto bene quanto egli è a dare la vita per Cristo crocifisso.