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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (6 giugno 2025)
CATT
  • Padre Dario Bossi

    Le statuette e la paura indotta del diverso

    È un oggetto di artigianato comune, prodotto in Amazzonia da artisti

    locali, condiviso e utilizzato come simbolo della vita e della fecondità: una

    statua di legno che raffigura una donna indigena gravida. Si trovava nella

    Chiesa Transpontina, in Roma, assieme a vari altri elementi amazzonici come una

    canoa, frutti della foresta, reti da pesca, immagini e foto di altri popoli

    tradizionali, nello spazio di preghiera permanente che accompagnava passo a

    passo il Sinodo dell’Amazzonia, offrendo un’occasione di incontro tra i popoli

    indigeni, e tra di essi e la gente in Roma.

    All’improvviso, è scoppiata  una polemica, che gridava al paganesimo e alla

    venerazione di immagini idolatriche. Un video di un’azione “punitiva” e

    “riparatrice”, del furto della statua dalla chiesa e del suo lancio nel Tevere,

    ha fatto il giro del mondo, commentato in diverse lingue.

    I critici del Sinodo dell’Amazzonia sanno bene che il problema non sta in quest’immagine.

    Ma la strategia efficace della comunicazione oggi, quando si vuole

    smontare, confondere o indebolire processi, è puntare su elementi simbolici che

    facciano appello ai sentimenti primari della gente: la paura, l’autodifesa, il

    vincolo viscerale con le proprie certezze…

    È una tecnica molto usata anche in processi politici recenti, come in

    Brasile (il caso del “kit gay” – fake news 

    con cui in campagna elettorale l’attuale presidente ha diffamato il suo

    avversario) o nel Brexit (la minaccia dei turchi, secondo la denuncia di Carole

    Cadwalladr sui tanti commenti manipolati che circolavano su Facebook all’epoca

    del referendum britannico).

    La statuina indigena non è un fatto isolato, magari un po’ folkloristico: è

    una nuova tappa di un piano ben architettato, collegato ad altre strategie di

    critica al Sinodo e a Papa Francesco, un progetto con investimenti consistenti

    di denaro, conoscenze e uso manipolato dei social media.

    Papa Francesco lo ha compreso. Durante i lavori delle tre settimane di

    assemblea sinodale ha parlato, brevemente, solo tre volte. Una di esse è stata

    per chiedere perdono, come vescovo di Roma, alle persone che sono state offese

    da questo gesto. Non lo ha lasciato passare in silenzio, non ha aggredito i

    detrattori del Sinodo, ma ha fatto capire che è in atto un attacco e un’offesa

    al diritto e alla dignità di molte persone e culture.

    Inoltre, ha sottolineato che non c’è nulla di idolatrico nell’arricchire la preghiera con simboli e gesti che provengono dalle culture indigene.

    Questa vicenda ci permette di approfondire e tentare di smascherare un

    metodo di comunicazione che continuerà ad aggredire, spesso in modo

    superficiale e quasi sempre fondamentalista, molti altri processi di

    conversione e cambiamento nella Chiesa, e varie proposte politiche costruttive.

    Ci fa riflettere anche sul rapporto tra il Vangelo, la religione e le

    culture. Il Vangelo è nato nel cuore di una cultura specifica, della Palestina.

    Si è adattato ed ha acquisito forme e espressioni della cultura greca, prima, e

    romana, poi. Attorno a questo Vangelo si è consolidata una forma religiosa con

    le caratteristiche culturali latine ed occidentali.

    Ha acquisito e integrato elementi, simboli, gesti e tradizioni di altre

    culture, considerate “pagane”, come l’uso dei templi dedicati ai santi e

    decorati con i rami degli alberi, l’incenso, le lampade e le candele, le

    offerte ex voto per la guarigione di una malattia, l’acqua benedetta, le feste

    e le stagioni liturgiche, l’uso dei calendari, le processioni, la benedizione

    dei campi, i paramenti sacerdotali, la tonsura, l’anello usato nel matrimonio, il

    dirigersi ad est, le immagini, il canto ecclesiastico ed il Kyrie Eleison. Il

    cardinal Newman, recentemente canonizzato, spiega che tutti questi elementi

    sono di origine “pagana” e sono stati positivamente integrati nella nostra

    religione.

    Ora, però, in un mondo che sempre più ci apre alla pluralità degli incontri

    interculturali, difendiamo una religione “pura” che non si lascia “contaminare”

    da elementi di altre culture, li demonizza ed esorcizza.

    Dietro questa difesa, in un tempo di precarietà e di incertezza sul futuro,

    si nasconde la paura di perdere altre sicurezze. Ci arrocchiamo nelle nostre

    convinzioni, senza renderci conto del serio pericolo dell’asfissia spirituale e

    del razzismo delle nostre posizioni.

    Uomini, “bianchi” ed europei, dichiarandosi fedeli alla legge della

    religione cattolica, hanno invaso una chiesa e uno spazio di preghiera in cui

    si stavano intrecciando diverse culture in rispettoso ascolto di Dio e del

    Sinodo, ed hanno strappato un’immagine femminile, simbolo della vita, con

    lineamenti indigeni, con l’intenzione di “purificare” la fede.

    Ma dietro questa paura e questa violenza, come dicevamo all’inizio, ci sono

    progetti più consistenti, che ne fanno uso e la manipolano, in diverse

    occasioni e in varie parti del mondo, per attaccare processi, percorsi

    religiosi e politici che tentano promuovere l’integrazione delle differenze, la

    riduzione dell’esclusione, la giustizia e l’impegno contro ogni disparità di

    diritti e contro l’accumulazione di denaro e di potere.

    Dopo le statuette, altri dettagli simbolici verranno ingigantiti ed

    utilizzati a servizio di questo piano. Una risposta a questa reazione

    epidermica, aggressiva, viscerale, autoreferenziale e piena di rabbia può

    essere data con i fatti, la testimonianza concreta, l’esperienza di vita, il

    dialogo a tu per tu, l’incontro, la riflessione ed il dibattito rispettoso, in

    cui però si ponga attenzione ai prediletti di Dio e si dia autorità di parola e

    di proposte alle vittime di questo sistema, che esclude il diverso, il più

    fragile, il meno utile.

    p. Dário Bossi, superiore provinciale  dei Missionari comboniani in  Brasile, membro del Repam (Rete Ecclesiale  Panamazzonica) e della rete  Iglesias y Minería, in Amazzonia da  15 anni. 

    Leggi anche: Una Chiesa che sceglie nuovi cammini e ascolta la poesia dei popoli e La voce dal Sinodo del missionario italiano padre Dario Bossi.

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