di Mons. Alain de Raemy*
Noi tutti, talvolta, siamo prigionieri: prigionieri dei nostri pregiudizi, del nostro egoismo, delle nostre scelte irreversibili, delle nostre dipendenze; ma anche prigionieri delle ideologie e della disinformazione. Facciamo fatica a uscirne. La buona volontà non sempre basta. Forse una scossa, un evento forte ci risveglia e ci dà la mossa che mancava. Comunque, ci servirà sempre l’aiuto degli altri. E ci serve anzitutto l’aiuto di Dio. Ci serve la verità, per ritrovarci in libertà.
Sì, tutti viviamo non di rado in una specie di carcere. Dunque, abbiamo sempre in qualche modo bisogno di riacquistare a tutti gli effetti la nostra piena libertà. Solo «la verità vi farà liberi» (Gv 8,32) ci dice Gesù. E san Paolo commenta: «Cristo ci ha liberati per la libertà» (Gal 5,1).
Le persone carcerate sono apparentemente prigioniere del loro passato. Un passato che pesa, ovviamente, sul loro presente. Non possono cambiarlo. Anzi, vengono confrontati con le sue conseguenze. Ma hanno il «vantaggio» di trovarsi esplicitamente messi sulla via della verità e del riacquisto della libertà. Subiscono la scossa di una realtà che ha fatto male e fa anche loro male. Un male che ormai li isola; ma con lo scopo, non facile da organizzare, di reintegrarli nella società con più grande responsabilità, consapevolezza e saggezza. Dietro le porte chiuse si nasconde la porta aperta al futuro, la porta dell’unica via d’uscita per una vita nuova: una vita che si lasci istruire (ma non dominare) dal passato, per essere tanto più inserita in un presente di piena verità: senza maschere, senza tergiversazioni, senza scorciatoie. Ma con realismo e volontà di riparare e migliorare, in piena coscienza del sacro debito dovuto a chi è rimasto ferito.
Una consapevolezza che nel credente è l’esperienza della propria nudità davanti alla nudità del Crocifisso. Lui che si identifica a colui o colei che è stato ferito. Matteo l’evangelista ci riferisce lo stupore che vivremo all’ultimo giudizio: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Quando facciamo visita a una vittima ingiustamente incarcerata, facciamo proprio visita a Gesù. Quando visitiamo chi è in carcere per giusta sentenza, lo avviciniamo a Gesù, che non è venuto per i giusti ma per i peccatori (Mt 13). E quando i peccatori si pentono, abbracciano Gesù in croce, denudato e maltrattato.
Non è sempre facile trovare in carcere l’indispensabile aiuto per attingere alla liberazione dalle catene del male, anche perché la diversità delle condanne, dei reati, dei caratteri, delle culture e delle lingue, rende la convivenza complessa e a volte davvero difficile. Ma tanto dipende anche dall’umiltà che riesce a far strada in me.
A Lugano i carcerati hanno per fortuna una cappella sempre aperta. Quando chi liberamente partecipa alla preghiera o alla messa, si trova con gli altri davanti al Mistero Grande del Dio onnipotente che esprime il suo amore in una culla e sulla croce… nei loro occhi diventa visibile la tormentata ricerca della libertà nella verità. Il Giubileo sia per tutti loro e per tutti noi occasione di vera conversione!
* Amministratore apostolico della diocesi di Lugano