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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (26 agosto 2025)
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  • Tracce cristiane nel monastero di Gaghard in Armenia

    Armenia, la fede di un popolo scolpita nella pietra e nei cuori

    1/3 Reportage dall’Armenia di Chiara Gerosa

    C’è una fede che ha preso dimora nella pietra. Non solo scolpita nelle croci di tufo giallo e rosa che punteggiano ogni collina d’Armenia, ma incisa nella memoria viva di un popolo che ha fatto della Croce la propria identità. È con questo spirito che mi sono messa in viaggio, con l’Associazione Russia Cristiana, verso la prima nazione ad aver abbracciato ufficialmente il cristianesimo, nel lontano 301 d.C., sotto la guida di San Gregorio l’Illuminatore e del re Tiridate III.

    Alle origini di una fede nazionale

    Il nostro viaggio comincia a Yerevan, capitale che accoglie circa un terzo della popolazione armena, per poi spingersi tra monasteri e alture, là dove il paesaggio incontra e si fonde con la storia e la spiritualità. Tra le prime tappe, Zvartnots, splendore architettonico del VII secolo oggi in rovina, e le chiese delle martiri Hripsimé e Gayané, testimoni del coraggio di chi ha scelto Cristo fino alla fine.

    La nostra guida, Viktorya Mangasaryan, ci offre una chiave di lettura semplice ma potente: «Per mantenere la nostra identità abbiamo scelto il cristianesimo». Tre sono, secondo lei, i pilastri dell’identità armena: la lingua, la religione e l’alfabeto.

    Khachkar: la Croce che fiorisce

    Camminando in Armenia si capisce perché si dice che la fede sia «scolpita nella pietra». «Ovunque ci sono khachkar, croci di pietra. Non sono solo arte: ogni croce ci ricorda chi siamo», ci dice ancora la guida. I khachkar sono commemorativi, funerari o decorativi, ma nessuno è uguale all’altro, come le persone. Unico, quello di Haghpat che reca persino l’immagine di Cristo con gli apostoli, nonostante la Chiesa armena sia tradizionalmente piuttosto aniconica. Le croci affusolate, simili a germogli, esprimono un messaggio: la croce è segno che si può rinascere dalla morte.

    Echmiadzin e il cuore della fede

    Visitare Echmiadzin, il «Vaticano d’Oriente», a pochi chilometri da Yerevan, significa entrare nel cuore della Chiesa apostolica armena, che raccoglie il 95% della popolazione. Una Chiesa antica, indipendente da Roma ma anche dalle altre Chiese ortodosse, sopravvissuta a persecuzioni e decenni di ateismo imposto. «Durante il comunismo le chiese erano chiuse, ma nelle case si continuava a pregare», racconta Viktorya, che sotto il regime sovietico era costretta a seguire lezioni di ateismo.

    Oggi, la Cattedrale di San Gregorio l’Illuminatore, costruita nella capitale nel 2001 per celebrare 1’700 anni di cristianesimo, testimonia che la fede non è solo memoria, ma resistenza: «Ogni giorno per noi è un giorno di lotta. Lottiamo per vivere».

    L’Ararat, la montagna perduta

    Come il Fujiyama per il Giappone, l’Ararat – o Massis, come lo chiamano gli armeni – è il monte sacro dell’Armenia. Un vulcano maestoso (5’156 m) che domina l’orizzonte dell’Armenia, pur trovandosi oggi oltre la – chiusa– frontiera turca. «Via dalla montagna sacra: l’Ararat ora sarà per noi un paese straniero», piansero gli armeni dopo il trattato di Kars del 1921, quando i sovietici cedettero la vetta alla Turchia. Dal monastero di Khor Virap intravvediamo bene l’Ararat (dopo giorni di foschia), ma oggi nessun armeno può salirvi. Solo una baracca di soldati, e greggi erranti in una terra di nessuno separano il popolo dalla sua vetta simbolo.

    Eppure l’Ararat vive più che mai nell’anima armena: la cima innevata, è lontana ma presente in ogni canto, poesia, bandiera.

    Tra manoscritti e albicocche

    Nel cuore della capitale, il Matenadaran, il museo con oltre 18.000 antichi manoscritti, è testimone della cura con cui gli armeni hanno sempre custodito la parola scritta. «I primi maestri erano i monaci – spiega Viktorya – e l’alfabeto fu inventato proprio per rendere comprensibile la Messa al popolo».

    Anche la bandiera armena parla la lingua del popolo: il colore arancione richiama il frutto simbolo del Paese, insieme al melograno, l’albicocca, e la fertilità della sua terra, ma anche la forza di chi lavora.

    Memoria viva

    La memoria è un altro filo che unisce fede e identità. Nell’ultima sala silenziosa del Museo del Genocidio che ripercorre il genocidio del 1915, Viktorya Mangasaryan ci racconta della nonna, sopravvissuta alla deportazione. «Dopo i lavori di casa si sedeva in silenzio a fumare, con le lacrime agli occhi. Anche nei suoi ultimi anni di vita teneva sempre un pezzo di zucchero nel grembiule e lo stringeva. Noi bambini non capivamo e ne ridevamo. Abbiamo scoperto dopo la sua morte che durante le marce forzate verso l’esilio i nonni davano ai bambini nel deserto una zolletta da leccare, per farli resistere alla fame». Una storia semplice, eppure emblematica.

    Anche oggi, la fede armena è messa alla prova. «Il Nagorno-Karabakh è una ferita aperta», dice la guida. «Nonostante tutto, resta forte la speranza. Noi armeni crediamo nella rinascita. Come le nostre croci». Anche noi lo sentiamo, seppur da visitatori: la fede armena si rivela per ciò che è. Sì, l’Armenia, definita «terra delle pietre urlanti», pietre che urlano una speranza che non si spegne.

    Leggi anche: La realtà del Nagorno-Karabakh: la croce nel silenzio delle montagne

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