2/3 Reportage dall’Armenia di Chiara Gerosa
C'è una ferita che pulsa nel cuore del Caucaso: è quella del Nagorno-Karabakh, terra montuosa e antica, a lungo abitata da una popolazione armena e cristiana, oggi svuotata della sua presenza. Il nome di questa regione è tornato con forza alla ribalta nel 2020 e poi nel 2023, quando nuove offensive militari azere hanno portato alla fuga 120.000 armeni in poche settimane, diretti verso l’Armenia con nient’altro che qualche valigia, icone e memoria.
Alcuni di questi profughi si sono insediati nei villaggi e nelle città che ho visitato, chi ha potuto ha raggiunto la diaspora, i tanti parenti che popolano altre parti del mondo portando con sé una fede temprata dalla sofferenza.
Una storia lunga e complessa
Il conflitto affonda le radici nel XX secolo, quando Stalin assegnò il Nagorno- Karabakh, a maggioranza armena, alla Repubblica sovietica dell’Azerbaigian. Alla fine dell’Unione Sovietica, tra il 1988 e il 1994, esplose un primo conflitto sanguinoso, che si concluse con una vittoria armena e la nascita di una Repubblica dell’Artsakh, mai riconosciuta a livello internazionale. Nel 2020, una nuova guerra ha portato l’Azerbaigian a riconquistare ampie porzioni del territorio. E infine, nel settembre 2023, con una rapida offensiva, Baku ha preso il controllo totale del Nagorno-Karabakh. In meno di una settimana, l’intera popolazione armena è stata costretta a lasciare la regione.
Un esodo che interroga la coscienza
Chi visita oggi l’Armenia avverte questo dramma come una presenza sottile, ma costante. Nei volti, nei racconti delle guide, nei numerosissimi murales nei luoghi pubblici che raffigurano i volti dei soldati caduti durante il conflitto del 2020. Forse proprio il segno che mi colpisce di più, perché sono disegnati con cura, con dovizia di particolari, quasi a volerci raccontare l’unicità di questi soldati dal tragico destino comune. Dipinti che commemorano i soldati, ma rappresentano anche un modo per esprimere dolore, rabbia e resilienza da parte della società armena di fronte al conflitto. Ma si tratta di un dolore che non ha parole, che si intuisce in un khachkar abbandonato, in un monastero svuotato, nella preghiera silenziosa di chi ha perduto tutto, fuorché la fede. La guida ci racconta che spesso i rifugiati sono scappati solo con l’immagine della Madre di Dio a loro tanto cara e una manciata di terra, perché le loro tombe sono rimaste là.
Un silenzio che parla
Il Karabakh oggi è completamente disabitato dagli armeni. Le chiese sono chiuse, le croci solitarie. L’accordo di Pace firmato ad inizio agosto tra Azerbaigian ed Armenia non porta una riga sulla questione dell’esodo avvenuto due anni fa, né sui prigionieri ancora incarcerati. Mediato dagli Stati Uniti, è un accordo incomprensibile: che cosa guadagna davvero l’Armenia? L’oblìo di quei volti e di quell’esilio forzato? Ma il grido di questo popolo non è scomparso. Come cristiani, siamo chiamati a non distogliere lo sguardo, a pregare per la giustizia e la riconciliazione, e a sostenere – anche solo con la memoria – chi ha portato e porta la croce.
L’iniziativa svizzera
Sull’accordo tra Armenia e Azerbaigian, l’organizzazione umanitaria Christian Solidarity International raccomanda di sostenere l’«Iniziativa svizzera per la pace nel Nagorno-Karabakh », con la quale la Svizzera, nel coinvolgimento di altri Paesi, si impegna a organizzare un forum per la pace tra l’Azerbaigian e i rappresentanti della popolazione sfollata del Nagorno-Karabakh.
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