di Corinne Zaugg
Erano seduti in quattro, lunedì scorso a Zurigo, alla tavola dei relatori per fare il punto della situazione a poco più di otto mesi dalla presentazione del rapporto sugli abusi nella Chiesa svizzera: mons. Joseph Bonnemain, vescovo di Coira e responsabile del dossier abusi in seno alla Conferenza dei vescovi svizzeri (CVS), l’abate Peter von Sury, delegato della Conferenza dell’Unione degli ordini e di altre comunità di vita consacrata («KOVOS»), Roland Loos, presidente della Conferenza centrale cattolica romana in Svizzera (RKZ) e Stefan Loopacher, che da responsabile della prevenzione per la diocesi di Coira è passato proprio in questi giorni al ruolo di direttore del nuovo ufficio nazionale «Abusi nel contesto ecclesiastico». Di fronte a loro giornalisti provenienti un po’ da tutte le testate della Svizzera, sia laiche che religiose.
L’attesa era grande. La Chiesa cattolica era infatti chiamata a condividere con giornalisti e opinione pubblica quello che è accaduto al suo interno dal12 settembre dello scorso anno e a che punto sono le proposte fatte in quell’occasione, per cercare di arginare il fenomeno degli abusi e tutelare meglio le persone che ne erano state vittime.
Il primo a prendere la parola è stato mons. Bonnemain che ha detto di dover purtroppo riconoscere che il cambiamento sta procedendo ad un ritmo più lento di quello che si erano augurati e che sarebbe necessario. Il motivo? Principalmente la decisione della Chiesa in Svizzera di procedere unita, vincendo la tentazione che ogni diocesi vada avanti per conto proprio e secondo la propria velocità. Un’unità difficile da portare avanti in una Svizzera caratterizzata da lingue, mentalità e sensibiltà profondamente diverse e abituata a muoversi, anche in campo religioso, secondo una mentalità federalista. I primi passi in questa direzione sarebbero già stati compiuti, ma per la loro messa in opera ci vorrà un po’ più tempo, per cui alcune delle misure annunciate, hanno dovuto essere procrastinate di un anno. Non ricapitolerò qui le singole misure di cui si è parlato. Da qualche giorno sono state pubblicate sul sito catt.ch. Ma mi soffermerò a raccontarvi di un clima che cambia. Di una Svizzera che ha deciso di procedere unita nella lotta agli abusi, proponendo su tutto il territorio nazionale le medesime stutture legali, le stesse modalità per l’assunzione del personale che andrà a ricoprire incarichi pastorali e gli stessi criteri per i giovani che desiderano entrare in seminario. Alcune strutture, invece, verranno centralizzate – il tribunale nazionale ecclesiastico penale e disciplinare per esempio – , per evitare che, come può accadere oggi nei tribunali diocesani ecclesiastici, siedano le une di fronte alle altre, persone che si conoscono, generando conflitti di lealtà che si possono facilmente immaginare.
Per quanto riguarda la diocesi di Lugano, che all’indomani del 12 settembre si è scoperta l’unica diocesi a non avere un gruppo di auto-aiuto per le vittime che hanno subito abusi all’interno della Chiesa, ma sembra che anche qui le cose stanno per cambiare e che un gruppo di una decina di persone sia al lavoro, insieme alla dottoressa Myriam Caranzano, per dare vita ad uno di questi gruppi indipendenti per sostenere e accompagnare chi si porta dentro una storia di abusi: sessuali e spirituali. Perché come ha detto nel corso dell’incontro di Zurigo Vreni Peterer, presidente di uno di questi gruppi nella Svizzera tedesca e a sua volta vittima di un abuso, occorre sottolineare in ogni occasione anche l’esistenza della violenza spirituale: molto difficile da mettere a fuoco (dalle vittime per prime) ma che procede strettamente intrecciata con l’abuso di natura sessuale. Insomma, la Chiesa si è mossa e dolorosamente si è messa in cammino perché quanto accaduto non abbia a ripetersi mai più.
Leggi anche: Abusi: la Chiesa in Svizzera fa il punto sulle misure da attuare e attuate (catt.ch)
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