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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (3 ottobre 2025)
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  • COMMENTO

    Clemente Rebora, dall’inquietudine alla fede

    di Gilberto Isella

    Clemente Rebora (Milano, 1885-Stresa, 1957) è ritenuto uno dei più significativi poeti del primo Novecento italiano. Già nella raccolta d’esordio Frammenti lirici, uscita nel 1913, spicca l’alta tensione drammatica e morale del suo dettato («Tragica viene a contrasto l’idea […] / E la natura che senza me crea / Perché il soffrire è sicuro / E il comprender oscuro?). L’implicita inquietudine d’impronta leopardiana qui si carica di toni espressionistici, e al contempo, secondo Gianfranco Contini, «il vocabolario si fa pungente, il registro d’immagini e metafore arditissimo». Nel segno di una sintassi non di rado a sua volta convulsa, tale atmosfera - potenziata negli anni successivi dall’esperienza della prima guerra mondiale vissuta in prima persona - troverà il suo vertice espressivo nei Canti anonimi (1922), l’opera di sicuro più matura, dove in una nota autoriale si legge: «Queste liriche appartengono a una condizione di spirito che imprigionava nell’individuo quella speranza la quale sta ormai liberandosi in una certezza di bontà operosa, verso un’azione di fede nel mondo».

    In questa prima fase della produzione reboriana prevale un afflato religioso di natura sincretistica e fors’anche velatamente panteistica, imperniato sull’attesa dell’evento, «mentre si crea il creatore Iddio / Per la concreta verità del mondo». La ricerca di tale verità, nonostante il filo di speranza intravisto, è ancora spasmodica, inassuefatta («Lo spazio poroso e assetato / Da cieli e da terre ribeve / Istantaneo e insaziato»). Ma nel 1928, spinto da un incessante travaglio interiore, Rebora avverte una crisi religiosa che lo porterà ad abbracciare la fede cattolica. Ordinato sacerdote, aderisce all’ordine rosminiano trasferendosi a Domodossola e proseguendo, a fianco dell’impegno ministeriale e umanitario, nel lavoro poetico, seppure con minore slancio innovativo (vedi gli Inni). Morirà a Stresa nel 1957.

    Tratto dai Canti anonimi, il trittico poetico Se Dio cresce concentra in un pugno di versi la sensibilità religiosa di Rebora del periodo giovanile, ancora in parte sotto l’influsso del pessimismo cosmico-antropologico: «L’età cavernicola è in noi». Come dire che l’essere umano è abitato da contrasti tenaci, e che la lotta tra il Bene e il Male – fondata su un’antitesi dei primordi – non si risolve col semplice volontarismo, ma solo grazie a un processo di crescita o «rito inziatico» che suppone preliminarmente la discesa agli inferi, l’esperienza della voragine o della noche obscura teorizzata da San Giovanni della Croce. Solo allora arriverà il risveglio dopo il sogno.

    «Se Dio cresce»

    Se Dio cresce
    Il diavolo aumenta,
    Vetta che al cielo più riesce
    Scavando una voragine tremenda.

    E merito non è, non è peccato,
    Se in noi le ascese cadon paurose,
    Come chi sogni, agitato
    Al senso delle cose.

    Ma chi si sveglia nel gran giorno ha fede:
    Scorge cader la luce al nostro fondo
    Per rivelarci il sol che attende
    Sul culmine del mondo.

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