“La gente vaga tra le macerie come fantasmi affamati”. La situazione a Gaza è allo stremo. Anton Asfar, Segretario generale di Caritas Jerusalem, descrive con toni crudi la crisi umanitaria in atto nella Striscia, aggravata dal crollo della tregua e dalla chiusura dei corridoi umanitari. Le sue parole, rilasciate al Sir, sono una denuncia, ma anche una testimonianza di presenza, resilienza e servizio sul campo. Nel frattempo l’Omg scelta da Trump ha iniziato una prima, precaria, distribuzione di cibo.
Qual è oggi la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza?
Dopo il collasso del cessate il fuoco e la chiusura dei corridoi umanitari, dal 2 marzo la situazione si è drammaticamente deteriorata. Da tre mesi non arrivano più rifornimenti adeguati: mancano cibo, acqua potabile, medicine. La popolazione è in continua ricerca di viveri e si è tornati al consumo di cibo in scatola.
I bambini soffrono di malnutrizione. Le persone si muovono come fantasmi, affamate. Non ci sono carne fresca, verdure o altri generi alimentari: tutto è finito.
Nei giorni scorsi sono entrati alcuni Tir con gli aiuti. Hanno avuto un impatto reale sulla situazione?
Solo all’inizio di settimana scorsa sono stati fatti entrare pochi aiuti. Ma parliamo di quantità irrisorie, come dare tre o quattro caramelle a duecento persone. La popolazione è allo stremo. I nostri operatori ricevono ogni giorno richieste disperate. Ieri, ad esempio, un padre ci ha scritto raccontando di aver venduto tutti i suoi beni per poter comprare qualcosa da mangiare per i suoi due figli piccoli.
Quali sono le urgenze principali per la popolazione?
Come detto, sono soprattutto cibo fresco, carne, verdura, frutta per i bambini denutriti. Ma anche acqua potabile, tende, kit per l’igiene. Ma soprattutto la dignità, in particolare per le donne. Il meccanismo di ingresso degli aiuti è estremamente lento e le quantità sono del tutto insufficienti. Anche i nostri operatori a Gaza, che sono parte della comunità locale, soffrono la fame mentre cercano aiuti per le loro stesse famiglie.
Come riuscite a garantire l’operatività in un contesto così instabile?
Riceviamo continuamente ordini di evacuazione, da parte dell’esercito di Israele, che costringono la popolazione a spostarsi da una zona all’altra.
Abbiamo dovuto chiudere improvvisamente un nostro presidio medico ad Abu Arif, nella zona di Deir al-Balah, lasciando lì le attrezzature perché era troppo pericoloso. Le abbiamo recuperate solo dopo giorni. Anche il centro medico nel campo di Al-Shati è stato chiuso.
Lo avevamo appena riabilitato e riaperto nel campo profughi di Shorti, ma con i nuovi ordini di evacuazione in atto anche lì, abbiamo dovuto sospendere le attività per alcuni giorni.
Si parla spesso della città di Rafah come destinazione forzata per gli sfollati…
Sembra che l’obiettivo sia concentrare la popolazione in nuovi “hub” a Rafah, che però non offrono nulla di dignitoso. Si cammina per chilometri per un pacco alimentare, senza mezzi di trasporto, con costi insostenibili. È un modo per spingere le persone ad abbandonare Gaza, un giorno, volontariamente. Ma al momento nessuno vuole lasciare la propria terra.
Quali servizi riuscite ancora ad offrire?
Nonostante tutto, Caritas Jerusalem continua a fornire servizi salvavita. Abbiamo dieci presìdi medici attivi, cinque a nord e cinque a sud di Wadi Gaza. Uno di questi è stato chiuso a causa degli ordini di evacuazione, ma i nostri operatori sono determinati a restare al fianco della popolazione. Contiamo su oltre 120 dipendenti, oltre a molti volontari, impegnati a fornire assistenza medica e umanitaria alle fasce più vulnerabili.
E la comunità cristiana di Gaza?
Vive le stesse sofferenze del resto della popolazione: carenza di cibo e acqua, difficoltà negli spostamenti. Abbiamo tentato di trasferire alcuni nostri operatori dal compound della Sacra Famiglia e da quello ortodosso al centro medico di Al-Shati, ma le strade non sono sicure. La sicurezza del personale è la nostra priorità. Per questo abbiamo dovuto sospendere parzialmente anche quel presidio.
Come reagisce la popolazione, in particolare i cristiani?
Sono ostinati nel voler restare. Non vogliono vivere una nuova Nakba (letteralmente ‘catastrofe’, termine con cui la storiografia araba indica l’esodo forzato di circa 700.000 arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana del 1948, ndr.). Vogliono ricostruire Gaza, prima le loro anime e poi le case. Anche se la guerra dovesse finire, molti di loro ci dicono che non lasceranno la Striscia. Ci sarà bisogno di progetti, di supporto internazionale, ma lo spirito di resilienza è forte. La speranza è che questa tragedia non segni la fine, ma l’inizio di una rinascita.
fonte: sir/red