Un anno fa, a Milano, un ragazzo di 14 anni si è tolto la vita. «Nessuno ha parlato di diritto», ricorda Lucia Bellaspiga su Avvenire, «tutti ci si è chiesti perché». Oggi, invece, di fronte al suicidio assistito delle gemelle Ellen e Alice Kessler, i social esultano: «che gesto meraviglioso», «che romanticismo», «che coraggio».
Bellaspiga si domanda: perché questa differenza? La prima risposta è l’età. «A 14 anni la vita si attira più rispetto che a 89», quasi che l’anzianità riducesse il valore di una vita o la legittimità della sofferenza.
La seconda è la modalità. La morte del ragazzo è stata «scioccante, tragica». Quella delle Kessler, “assistita”, appare più accettabile. «La dolce morte ci abbaglia», scrive la giornalista, perché riveste di serenità un gesto che rimane disperato.
Infine la fama: due artiste ricche e conosciute non vengono percepite come fragili. «Sembrerebbe blasfemo pensare che anche loro avessero bisogno di aiuto», e così finiscono per non meritare compassione.
Eppure la scelta delle gemelle nasce da una paura simile a quella del giovane milanese: «meglio morire». Una società che applaude un suicidio e non si interroga «su ciò che è andato storto» rischia di perdere il senso stesso della vita.
Qui non si giudica nessuno, tantomeno Ellen e Alice che certo colpe non hanno, qui si medita su di noi, su una società che di fronte a due persone morte si compiace e non si interroga su ciò che è andato storto.