di Cristina Vonzun
Non c’è dolore che non abbia un valore. È con queste considerazioni che ho lasciato l’aula del tribunale penale cantonale in Lugano dopo aver partecipato in qualità di giornalista al processo nei confronti del prete colpevole di abusi e condannato a 18 mesi con la condizionale. Le ammissioni di colpa del sacerdote nei confronti delle giovani vittime, tra le quali dei minori e la leggerezza con cui lo stesso prete ha praticato altri toccamenti da lui definiti “terapeutici” e rilassanti ai giovani, hanno portato alla condanna. D’altro canto in aula si è sentito con chiarezza il pentimento del prete, il suo stesso “auto” atto di accusa, il suo chiamare l’errore e il male con il loro nome.
Le vittime prima di tutto
Detto questo, pensiamo alle vittime, verso le quali deve andare la nostra solidarietà, soprattutto un abbraccio grande va a coloro tra queste che stanno soffrendo e hanno sofferto di più per questa vicenda e questi atti, specialmente quei giovani che hanno avuto la forza di uscire allo scoperto. Il loro coraggio ad esporsi nella denuncia, soprattutto la forza del primo giovane che ha aperto la strada, è esemplare, come è stato sottolineato in aula di tribunale. Ma anche gli altri, i minori che hanno raccontato esperienze intime e sconvolgenti in un’età dove gli equilibri sono delicati. Il prete ne ha preso atto, è stato indubbiamente collaborativo mettendo lui stesso gli inquirenti - come emerso al processo - sulla strada di queste vittime. Alla fine del processo il prete ha ringraziato i ragazzi per avergli fatto capire che stava sbagliando. Ed è vero che il loro coraggio ha permesso al presbitero di rendersi conto del male fatto e della strada intrapresa che dietro alla componente terapeutica fasulla aveva nell’inconscio dell’uomo altri scopi, di cui oggi -grazie alla parola delle sue vittime - è consapevole.
Le domande raccolte tra la gente prima del processo
E tra la gente questa storia che impatto ha avuto? Pensiamo ai fedeli della diocesi e delle parrocchie dove il prete è stato attivo. Io che sono di Bellinzona so bene quante persone in parrocchia sono emotivamente toccate dalla vicenda, appresa con sgomento dopo l’arresto del presbitero. Il dolore che ci accompagna porta con sé una questione molto umana che ho raccolto tra la gente: prima che una persona stimata arrivi a questi punti forse si sarebbe potuto cogliere qualche segnale d una sua eventuale crisi, farsi qualche domanda? Oppure, ma perché non si è confidato con chi gli era vicino, con gli amici? Ponendomi a mia volta queste domande, ho trovato nel confronto con Daniel Pittet, diacono permanente della diocesi di Friborgo che nel suo passato ha vissuto l’esperienza diretta di aver subito abusi da un frate ed oggi è impegnato nella prevenzione in Romandia, un aiuto. Pittet sottolinea la complessità patologica di queste doppie personalità: uomini di Dio e persone dalle capacità manipolatorie di vario grado verso gli altri, anche inconsapevolmente vissute. Una persona così (stiamo parlando in generale) non è quindi mai solo male e basta, ma in lei convivono alti ideali e competenze - anche vissuti bene e predicati altrettanto bene - e tendenze che se sfuggono di mano, se la persona in questione non capisce in tempo di avere e non riesce a farsi aiutare, ad un certo punto possono portare ad atti di questo tipo, di cui – ed è l’altro aspetto – non sempre la stessa persona ne sente la piena gravità o pensa addirittura che si tratti di altro.
Dovremmo – e concludo - essere quindi tutti grati a colui che ha avuto il coraggio (non scontato) di denunciare e a coloro che hanno accolto la denuncia seriamente, e a chi ha portato avanti con competenza le necessarie procedure. E gratissimi ai minori che hanno raccontato quello che hanno subito.
Verso la procedura canonica
In quanto al prete, ora, pur a piede libero con il divieto di praticare attività con minori e l’obbligo di seguire un percorso terapeutico, dovrà anche affrontare la procedura canonica a Roma. E si sa che su questa materia la Chiesa è molto ferma.
Promuovere il coraggio delle vittime
Resta per tutti che il valore su cui costruire il futuro della gestione - a tutti i livelli - di drammatici casi come questo, che siano in Chiesa o altrove e che purtroppo continuano a succedere, è il coraggio delle vittime. Un coraggio da promuovere e incentivare, come d’altronde la Chiesa in Svizzera sta facendo, ad esempio con lo studio commissionato dai vescovi svizzeri all’Università di Zurigo in poi.