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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (19 dicembre 2024)
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  • Michele Fazioli, inviato RSI, ricorda il viaggio del Papa in Svizzera

    Michele Fazioli, inviato RSI, ricorda il viaggio del Papa in Svizzera

    di Michele Fazioli

    Quarant’anni appena, già quarant’anni. Sembra ieri, è già storia. La redazione mi chiede qualche scaglia di memoria visto che come giornalista avevo seguito giorno dopo giorno (ero uno degli inviati della RSI) tutta la settimana svizzera di Papa Giovanni Paolo II. Altri diranno del risalto pastorale di quella visita e del suo lascito, io annoto alcune sensazioni. Per esempio la percezione di quella visita come un evento straordinario, eccezionale.
    Il mattino del 12 giugno, con decine e decine di migliaia di svizzero italiani convenuti allo stadio di Cornaredo o assiepate lungo il percorso stradale del Papa, sembrava a un certo punto che il battito del tempo si fosse come rallentato, come sospeso. Si trattava della prima visita pastorale in assoluto di un Papa nel nostro Paese, e dunque di un evento unico, storico.

    Quando radio e tv annunciarono che l’aereo con a bordo il Papa stava entrando nel cielo del Ticino, migliaia e migliaia di occhi si alzarono verso l’azzurro e all’apparire lassù della piccola sagoma bianca corse in moltissimi animi una emozione strana e nuova, intensa, come un segno alto e misterioso, il simbolo stesso di questo pellegrinaggio storico del 264mo successore di San Pietro nelle nostre terre. Oltretutto il Papa era Karol Wojtyla, la cui elezione era stata un colpo di fulmine, il primo non italiano dopo 500 anni, da un Paese comunista in tempo di «guerra fredda». E poi c’era stato il drammatico attentato del 13 maggio 1981, e si era dovuto annullare proprio la visita in Svizzera in un primo tempo prevista quell’anno. E adesso finalmente eccolo qua, tornato energico e sano, in un clima ancora un po’ acceso dal timore per la sua sicurezza, a mantenere la promessa della visita elvetica. Mi ricordo poi l’intensità dell’incontro ideale del Papa polacco di fine Novecento con il Santo asceta svizzero del Quattrocento, quando Giovanni Paolo II toccò il legno della stanza bassa della casupola di Nicolao della Flüe: un momento di comunione fra due temperamenti mistici e gagliardi nel nome della stessa fede a distanza di secoli.
    Friburgo, il Papa arriva all’Università, c’è folla, noi giornalisti siamo lì vicino, si intrufolano due signore ben vestite e una delle due si mette a piangere e grida all’altra: «Tu vois! C’est Pierre! c’est Pierre qui passe!». Mi sono commosso un poco anch’io perché in quel minuto stavano trascorrendo duemila anni.

    Infine, Einsiedeln, verso il crepuscolo. Il Papa è appena arrivato in elicottero, è entrato in Abbazia. Nella calda sera estiva la gente sta mangiando o bevendo ai tavolini dei ristoranti attorno alla piazza. All’improvviso da alcuni altoparlanti viene annunciato l’Angelus del Papa, che non era previsto all’esterno e invece sì. Ecco Giovanni Paolo II in piedi contro la pietra calda dell’Abbazia su cui riverbera l’ultima luce rosata del sole. E la sua voce grave: «Angelus Domini nuntiavit Mariae…». Di colpo tutti i rumori si spengono, le voci si bloccano, ai tavolini la gente sembra paralizzata e viene avvolta in quella voce
    profonda e stanca nella sera. E tutti, credenti e non credenti sembrano aver di colpo capito che da quella piazza, attorno a quell’uomo vestito di bianco e così tremendamente carico di funzione e spiritualità, sale una preghiera comune, una attesa, una speranza verso il cielo, verso Dio per chi ha la fede, per altri almeno verso l’ipotesi di un Mistero.

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