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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (18 ottobre 2025)
  • Missionari da 175 anni tra le tante forme di povertà

    di Silvia Guggiari

    Essere «missionari di speranza» è l’invito di papa Francesco nel suo messaggio per la 99a Giornata Missionaria Mondiale che si celebrerà domani in tutto il mondo. Un evento che si inserisce anche in Ticino all’interno dell’Ottobre missionario e che verrà anticipato questa sera a Mendrisio con la veglia itinerante (vedi programma nel box a lato) con la testimonianza di padre Francesco Rapacioli, superiore generale del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere), che abbiamo intervistato.

    Padre Rapacioli, qual è oggi il ruolo del PIME nel quadro delle missioni nel mondo?

    La storia del PIME ha inizio 175 anni fa con la fondazione a Milano del Seminario Lombardo per le Missioni Estere che nel 1926 viene unificato da Pio XI con un istituto simile nato a Roma. L’unione di questi istituti forma il PIME. Oggi, siamo presenti in 20 Paesi nei cinque continenti con 400 missionari: abbiamo sempre privilegiato luoghi e paesi dove l’annuncio e la testimonianza cristiana erano ancora carenti. Con la secolarizzazione e l’aumento dell’immigrazione, oggi anche i Paesi in occidente vengono considerati mete missionari: siamo in missione ovunque, anche in Europa e in America, dove rimaniamo per fare attività di evangelizzazione e animare una certa sensibilità verso il resto del mondo, là dove i cristiani sono una piccolissima minoranza. Siamo presenti in Africa, in America, in Papa Nuova Guinea, ma la priorità più grande rimane da sempre l’Asia.

    Quali sono oggi le aree più problematiche in cui operare?

    Rimangono senza dubbio i grandi giganti asiatici come Cina e India: luoghi piuttosto impenetrabili e difficili da raggiungere, dove è complicato inviare missionari e avviare un’attività lunga e duratura. La Cina, grande colosso dell’estremo oriente, rimane piuttosto impenetrabile: basti pensare che anche in una comunità molto nutrita e «autonoma» come Hong Kong si sente molto la presenza del regime. Anche l’India, altro colosso dell’Asia meridionale, è un Paese in cui sta diventando molto difficile entrare e rimanere in modo stabile per un tempo prolungato.

    Lei ha vissuto tanti anni in missione in India e Bangladesh. Quali differenze sostanziali ha visto tra i due Paesi?

    Paradossalmente il Bangladesh, pur essendo un Paese a grande maggioranza musulmana (più del 91 % della popolazione, ndr), è molto più aperto rispetto all’India. Un’apertura verso l’esterno che si è mostrata in particolare dopo la liberazione del Pakistan nel 1971, quando il Paese si è ritrovato in ginocchio, poverissimo e molto provato. Questa apertura ha permesso alla comunità del PIME di investire nel paese e mandare tanti missionari. Anche se ultimamente c’è una radicalizzazione, come verrà spiegato sabato (alla Veglia di Mendrisio, ndr), è un paese che permette ancora ai missionari di entrare ad operare. In India, dove coesistono popoli e culture, la parola «missionario» rimane invece un tabù, non si può neanche pronunciare e diventa immediatamente motivo di sospetto.

    Tornando ad uno sguardo più ampio, come è cambiato in 175 anni il lavoro della missione?

    Siamo missionari che si rivolgono prevalentemente a persone che non conoscono la fede cristiana e lo facciamo per tutta la vita in un paese diverso dal nostro. I primi missionari partivano con il motto di «salvare l’anima e poi morire»: si andava per salvare, evangelizzare, convertire. Ricordo un missionario, morto nei primi anni 2000, che raccontava che nella sua attività in ospedale, quando incontrava persone che stavano morendo si chiedeva se non avesse dovuto battezzarli. Questa è una domanda che oggi non ci poniamo più, abbiamo una diversa teologia e pensiamo che la salvezza possa raggiungere le persone in modi diversi, anche al di là della Chiesa. Continuiamo ad annunciare il Vangelo e anche oggi ci sono comunità indigene che si convertono alla fede cattolica. Un altro aspetto in continuità con il passato è quello della diaconia: sempre si è promossa l’educazione, la sanità e l’attenzione verso persone che vivevano un disagio sociale. Questo si continua a fare. Ad esempio a Dacca, nella capitale del Bangladesh, gestiamo un circolo per persone che soffrono di dipendenze, una povertà che non si contemplava qualche decennio fa, mentre oggi il missionario che vuole raggiungere chi fa più fatica ha a che fare anche con queste situazioni. Un cambio di passo è avvenuto con il Vaticano II che ha definito che il missionario non solamente annuncia il Vangelo, promuove la giustizia e la pace, ma è anche una persona che promuove la convivenza tra i popoli e la conoscenza delle fedi e delle culture altrui.

    La veglia missionaria sabato a Mendrisio

    «Missionari di speranza tra le genti» è il titolo della veglia missionaria che si terrà sabato sera a Mendrisio. Il ritrovo è alle 20 nella chiesa Parrocchiale dei SS. Cosma e Damiano con un cammino fino alla Chiesa dei Capuccini. Durante la serata ci sarà la testimonianza di padre Francesco Rapacioli, superiore generale del PIME, che racconterà la situazione del Bangladesh, paese ospite dell’Ottobre missionario, dove è stato missionario a lungo.

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