“Dove eravate?”: è la domanda che si potrebbe rivolgere alla comunità internazionale, ma in modo particolare all’Europa e alle Nazioni Unite, quando nel luglio 1995 (dall’11 al 22), a Srebrenica, le truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić, aiutate dalle ‘tigri’ di Željko Ražnatović detto ‘Arkan’, sterminarono migliaia di bosniaci di fede musulmana. Il tutto mentre la piccola città, enclave bosniaca circondata da territori abitati da serbi bosniaci, costituiva una “zona protetta”, o almeno così dichiarata tale nell’aprile 1993 dalla Risoluzione 819 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Per questo era controllata dalla Forza di protezione delle Nazioni Unite (Unprofor).
Violenza inaudita
Furono giorni di massacri, violenze, stupri e brutalità di ogni tipo contro, uomini, donne, anziani, bambini, tutti bosniaco-musulmani. 20mila persone furono espulse dalla città, almeno 8.372 vennero trucidate dopo essere state inseguite e catturate nei boschi mentre cercavano di raggiungere Tuzla controllata dall’Armija BiH, formata in gran parte da soldati bosniaco-musulmani. Poi buttate in fosse comune scavate per eliminare tracce e testimonianze. I caschi blu olandesi (Unprofor) del battaglione “Dutchbat” che presidiavano la zona non fecero nulla per prevenire lo sterminio. Anzi. Fecero uscire dai loro compound a Potocari, alla periferia di Srebrenica, 300 bosniaci che vi si erano rifugiati, consegnandoli di fatto ai carnefici. Per questo motivo il Tribunale dell’Aja, nel febbraio del 2017, ha ritenuto l’Olanda “civilmente responsabile” per la morte di quegli uomini. Dieci anni prima, nel 2007, il genocidio di Srebrenica era stato riconosciuto dalla Corte internazionale di giustizia (Cig) che aveva sottolineato la responsabilità della Serbia nel non averlo prevenuto e nel non aver punito i suoi autori, su tutti Radovan Karadžić, all’epoca leader politico dei serbi bosniaci e Presidente della Repubblica Srpska e il già citato Ratko Mladić, Comandante dell’Esercito della Repubblica Srpska.
Giornata Onu per ricordare
Il 23 maggio dello scorso anno, l’Assemblea generale Onu ha proclamato l’11 luglio “Giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica del 1995”. L’Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani ha accolto la risoluzione come “un ulteriore riconoscimento delle vittime e dei sopravvissuti e della loro ricerca di giustizia, verità e garanzie di non ripetizione”. Trenta anni dopo quel genocidio, il bilancio delle vittime non è ancora definitivo. All’appello mancano ancora tantissime persone i cui resti giacciono, privi di nome, nei centri di identificazione. Solo una volta identificate con il test del Dna, saranno sepolte nel cimitero del Memoriale di Potočari, durante un rito che avviene ogni anno, in questo esatto giorno. A essere tumulate saranno solo 7 persone le cui spoglie sono state riconsegnate ai loro parenti sopravvissuti. Il tempo non gioca a favore. Ogni giorno che passa rende sempre più complessa l’identificazione lasciando nelle famiglie la ferita aperta e sanguinante.
Immobilismo del mondo. L’immobilismo del mondo ieri a Srebrenica, è lo stesso di quello di oggi a Gaza e in altri Paesi colpiti da guerre e tensioni, Ucraina, Afghanistan, Libia, Myanmar, Yemen, Sud Sudan, per citarne solo alcuni. Sono queste, e molte altre, le crisi e le guerre più o meno dimenticate che ancora oggi continuano a fare morti, feriti, sfollati, rifugiati e perseguitati. Complice anche un certo silenzio dei media misto alle grancasse della propaganda. Una comunità internazionale incapace (?) di difendere, allora come oggi, i più deboli, i più piccoli, i più vulnerabili. Incapace di assumere decisioni nemmeno per garantire un corridoio umanitario necessario a salvare centinaia di migliaia di vite umane allo stremo e in balia di una violenza inaudita. Come a Gaza. La domanda “Dove eravate?” oggi continua a rimanere inevasa. Fino al prossimo massacro. Fino al prossimo genocidio.
fonte: sir