È stata rilasciata quasi in sordina su Netflix a metà marzo e in una manciata di giorni è letteralmente esplosa. Parliamo della miniserie britannica “Adolescence” ideata dallo sceneggiatore Jack Thorne (suoi i copioni di “Enola Holmes” e “His Dark Materials”) e dall’attore Stephen Graham (“Peaky Blinders”, “Bodies”). Regista è Philip Barantini, che con Graham ha lavorato in “Boiling Point” (2021), film girato come un unico piano sequenza, scelta di regia utilizzata anche per “Adolescence”.La miniserie mette a tema, servendosi di una cornice giallo-poliziesca, il cortocircuito comunicativo tra genitori e figli adolescenti, su cui piomba lo sconforto di un dialogo disperso, senza più bussola.Protagonisti Stephen Graham, Christine Tremarco, Owen Cooper e Amélie Pease.
La storia. Regno Unito, 2024. È mattina presto e la famiglia Miller – i genitori cinquantenni Eddie e Manda, i due figli Lisa, quasi diciottenne, e Jamie, tredicenne – si sta risvegliando. All’improvviso una squadra di poliziotti in assetto da irruzione entra nell’abitazione e arresta Jamie. L’accusa è omicidio: è sospettato di aver ucciso la compagna di scuola Katie…
Due i punti di forza di “Adolescence”. Anzitutto lo stile di racconto, così avvolgente e immersivo, su un binario profondamente realistico. Quasi un pedinamento del reale sulla scorta della lezione neorealista. La miniserie si compone di quattro episodi di circa un’ora, tutti realizzati come unico piano sequenza:il primo è giocato sull’arresto di Jamie, nella totale incredulità dei familiari; il secondo segue le indagini tra scuola e commissariato; il terzo è un potente e angosciante dialogo tra Jamie e la psicologa incaricata di tracciarne il profilo; l’ultimo, il più struggente, riguarda Eddie e Manda, che provano a restare a galla nella quotidianità, assaliti da sensi di colpa e domande sul proprio ruolo genitoriale. Il tono del racconto è asciutto, in sottrazione, in una messa in scena realistica, marcata da colori lividi e angoscianti.
Secondo elemento di pregio è il tema, l’impianto narrativo. La miniserie decolla come un crime, con dinamiche da poliziesco, ma ben preso si palesa come un investigativo dell’anima: sul banco degli imputati non c’è solo Jamie, che deve chiarire la sua posizione; ci sono (soprattutto) i suoi genitori, lacerati da quesiti affilati. Dove hanno sbagliato? Perché la primogenita è cresciuta giudiziosa, mentre lui li ha condotti in tale baratro? Come capire quando media e social da opportunità comunicativa diventano inganno e occasione di degenerazione?
“Adolescence” mette a fuoco la stagione più delicata della crescita, il passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza; un territorio spesso sconosciuto ai genitori, che non riescono a cogliere tutto quel vortice di fragilità e rischi cui sono esposti i ragazzi, soprattutto nella vita onlife, tra realtà e dimensione digitale. La serie scoperchia il vaso di pandora di un tredicenne, all’apparenza timido e dai lineamenti puliti; un ragazzo che però sui social si lascia contaminare da cyberbullismo e sottocultura “incel” (pericoloso mix di introversione, misoginia e violenza).
Con grande tensione e abilità narrativa, “Adolescence” fotografa tutte queste crepe nella struttura familiare. Un racconto duro, senza filtri, non poco claustrofobico, che conquista per qualità e stile del racconto e densità della storia. Uno specchio deformante, o “semplicemente” riflettente, di una condizione sociale da non sottovalutare. Miniserie complessa, problematica, per dibattiti.
agenziasir/red
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