Intervista di Cristina Vonzun, catt.ch
Vescovo Alain, qual è la sua prima reazione a conclusione del processo al prete ticinese accusato di abusi e condannato a 18 mesi con la condizionale?
È una condanna che conferma la commissione di reati, peraltro ammessi dallo stesso prete. Quindi è appurato che ci sono stati abusi. Rimango molto addolorato per tutte le persone coinvolte.
Durante il processo è emersa come fondamentale la testimonianza del primo giovane che ha rotto il silenzio. Lei ha incontrato il giovane in questione che tra l’altro – come appreso al processo – è venuto da lei preoccupato anche per il pericolo in cui poteva incorrere un minore a lui vicino. Cosa l’ha colpita di questa testimonianza?
La difficoltà di una persona che ha avuto ammirazione nei confronti di chi stava denunciando, che aveva fiducia nell’altro e che ora vive la distruzione di questa fiducia. C’è un disagio profondo che ha vissuto e percepito dovendo denunciare una persona che lo ha fatto crescere nella fede. Va detto che il giovane è stato anche aiutato da qualcuno a lui vicino ed interno al mondo ecclesiale a cui si è confidato e con il quale ha preso coscienza della gravità dei fatti vissuti.
Al processo è emerso che ci sono altre vittime coinvolte, anche dei minori. Quale attenzione ora la Chiesa che è in Ticino sente di rivolgere a questi ragazzi?
C’è sempre da parte nostra la disponibilità ad accogliere chi desidera condividere un disagio personale. La Diocesi ora collabora ufficialmente con la LAV. La procedura presso la LAV avviene confidenzialmente, la persona viene aiutata gratuitamente, in modo professionale, con la garanzia di una totale indipendenza dalla Chiesa, di totale libertà e di assoluta discrezione. Sempre la LAV si occupa di avviare con le persone vittime le procedure per il risarcimento dovuto dalla Chiesa. Poi c’è il GAVA, un luogo di dialogo con persone che hanno subito questo stesso tipo di abuso e che si mettono a disposizione di altri. Lo raccomando di cuore!
Il GAVA – proprio in queste ore - ha rilasciato un comunicato nel quale sottolinea che la gravità dell’abuso non è definibile con criteri solo quantitativi (le volte che uno viene toccato) o qualitativi (le modalità dell’atto). Lei, che ha incontrato anche in altre occasioni delle persone vittime, condivide questa considerazione?
La sofferenza soggettiva non si può misurare. La sofferenza e il vissuto della persona prima della situazione dell’abuso, c’entrano con la sofferenza provocata dall’abuso. Tutte le persone sono diverse tra loro, ma la sofferenza c’è sempre. Talvolta una persona può rendersi conto di aver subito un abuso molto tempo dopo aver subito l’atto, ma quando se ne rende conto, quella persona soffre. Non è una sofferenza misurabile su una scala: è una sofferenza personale e capibile personalmente.
Il presbitero - che in sede processuale si è detto pentito e ha chiesto perdono per i "gravi errori commessi e per la sofferenza arrecata non solo alla vittime ma a tutta la Chiesa in Ticino" - ora dovrà affrontare una procedura canonica. Cosa lo aspetta da parte della giustizia della Chiesa?
Il caso implica dei minorenni quindi la competenza è di Roma. Roma, per emettere il suo giudizio, avrà a disposizione anche la sentenza e gli atti del processo civile.
Quindi ci sarà un processo canonico a Roma?
Ci sarà una procedura canonica, che può implicare o meno un processo, a seconda di quanto Roma deciderà.
Roma dovrà attendere l’esito del ricorso del Pubblico ministero?
Noi informiamo Roma, mandiamo tutta la documentazione, poi sarà Roma a decidere.
Il prete in questione è rientrato a casa, potrà celebrare Messa e svolgere attività pastorale con adulti, dato che il giudice gli vieta solo ogni contatto con i minori?
Al momento è sottoposto da parte della Chiesa alla misura cautelare di proibizione del ministero sacerdotale; quindi, non può svolgere attività pastorali o celebrare, questo fino a quando ci sarà la comunicazione dell’esito della procedura canonica.
La diocesi come lo accompagna in questo periodo?
La Chiesa deve sempre accompagnare i figli che sbagliano, anche chi ha commesso un crimine, senza mai sostituirsi alla giustizia civile, e far sì che vengano aiutati per fare verità in loro stessi e sanare tutta la loro vita.
Nella sentenza è stato deciso che il presbitero segua un accompagnamento di carattere psicologico. Questo, ora, dipende da lui o dalla Diocesi?
Da lui, in obbedienza alla sentenza del tribunale che è indirizzata a lui. La Diocesi può essere di aiuto.
Al processo si è parlato del vescovo Lazzeri. Il giovane - che poi è venuto da lei nel 2024, è emerso che si era rivolto nel 2021 già a Lazzeri per segnalare una situazione di grave disagio vissuto (da adulto) con il prete. Al processo si è parlato di un aiuto messo a disposizione dal vescovo Lazzeri al presbitero. Cosa non ha funzionato, secondo lei?
La decisione è stata presa secondo le conoscenze che aveva la Curia in quel momento, prendendo le misure del caso e indirizzando il prete da uno psicologo dove è andato. Il giovane, adulto al momento dei fatti, decise di non denunciare.
Cosa insegna questa vicenda alla Chiesa in Ticino?
Ci insegna ad avere sempre un’attenzione molto grande a chi esprime disagio, non solo nell’ambito dell’abuso sessuale, ma anche nell’abuso di potere e spirituale. Bisogna promuovere la libertà di parola nelle relazioni spirituali. Abbiamo già iniziato nei Vicariati un percorso di prevenzione rivolto ai preti e lo abbiamo fatto anche con il personale della Curia e con i colleghi della Conferenza missionaria. E proseguiamo.
Cosa pensa della decisione del Consiglio di Stato dell’obbligo di denuncia nella legge cantonale sulla Chiesa cattolica e riformata in Ticino?
Mi sembra giusta. Se lo Stato ha l’obbligo di informare la Chiesa quando un membro del clero viene accusato, deve esserci anche l’obbligo da parte della Chiesa di denunciare un caso allo Stato. Si tratta di un aspetto previsto dal diritto canonico e che ora viene applicato alla legge cantonale sulla Chiesa.
Leggi anche: condannato a 18 mesi con la condizionale il prete ticinese reo di abusi