di Gilberto Isella
Spiritualità evangelica e impegno civile, nell’opera di Pier Paolo Pasolini, vanno a braccetto. Ne danno ampia testimonianza i diversi ambiti creativi in cui questo controverso autore si è distinto: dalla poesia in lingua e dialetto friulano al romanzo, senza dimenticare gli scritti polemici. Anche il cinema ha avuto un ruolo importante nella sua produzione, talvolta con ottimi risultati. Cito al riguardo i lungometraggi Il Vangelo secondo Matteo e Accattone, apprezzati sia dalla critica laica sia da quella d’ispirazione cristiana.
Né veramente marxista, né cattolico in senso pieno, Pasolini ha incarnato il ruolo dell’eretico (e utopista) sempre sulla difensiva, di colui che, detto in breve, contrappone il proprio animo errante e ribelle alle istituzioni politico-culturali, in particolare quando esse manifestano insofferenza nei confronti del dubbio («lo scandalo del contraddirmi») o del travaglio interiore irrisolto.
Pasolini non sopportava la «colpevole stasi della coscienza», e al contempo soffriva per un senso di colpa indotto dalla propria omosessualità – erano altri tempi, certo – di cui non si sarebbe mai totalmente liberato. Toccanti le parole di una poesia giovanile ospitata in La meglio gioventù: «Ma tu che cosa hai fatto, terra cristiana, per spegnere il fuoco che hai appiccato alla mia carne quando credevo un gioco l’amarti?». Oppure, in altra sede: «La Chiesa del mio adolescente amore / era morta nei secoli, e vivente / solo nel vecchio, doloroso odore».
Le preoccupazioni di Pasolini, tuttavia, si estendono a un territorio che, travalicando l’individuo, coinvolge la società intera, la sua sfera etica. La civiltà contadina tradizionale, subalterna e rozza in superficie seppur nel profondo imbevuta di valori attinti al cristianesimo, a suo giudizio si è ormai irrimediabilmente dissolta. Quella che l’ha sostituita, di natura capitalistico- industriale, col suo progetto di desacralizzare il mondo, ha inaridito il sentimento morale delle persone, creando condizioni favorevoli al diffondersi dell’indifferenza (la medievale «accidia»), del cinismo e soprattutto della viltà. Se per Dante il peccato più esecrabile era la frode contro «chi si fida»(il tradimento), per Pasolini è appunto la viltà. Un sacrilegio, un «sentimento fossile» impossibile da sradicare. Che allunga inoltre la sua ombra malefica in ogni anfratto dell’anima, conducendo fatalmente l’uomo all’irreligiosità. Tale è la sentenza che conclude un drammatico climax all’interno di un poemetto incluso nella raccolta La religione del mio tempo, risalente al 1957-59. Ne propongo un frammento
Così, se guardo in fondo alle anime delle schiere di individui vivi nel mio tempo, a me vicini o non lontani, vedo che dei mille sacrilegi possibili che ogni religione naturale può enumerare, quello che rimane sempre, in tutti, è la viltà.
Un sentimento eterno – una forma del sentimento – fossile, immutabile, che lascia in ogni altro sentimento diretta o indiretta, la sua orma.
È quella viltà che fa l’uomo irreligioso.
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