di Cristina Uguccioni
È cominciata una nuova era per la Siria. Dopo decenni di dittatura, l’8 dicembre scorso è finito il regime di Bashar al-Assad. Ora il Paese è guidato da Abu Mohammed al-Jolani, leader del gruppo Hts (Hayat Tahrir al-Sham). In questa conversazione con Catholica e catt.ch, il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria dal 2009, racconta il volto di Paese prostrato che sta cercando di risorgere.
Come giudica quanto accaduto?
«Gli avvenimenti dello scorso dicembre costituiscono una svolta storica per Siria. Tutto è accaduto in una manciata di giorni: è stata quindi una svolta inattesa e improvvisa, che ha trovato tutti impreparati. Credo che si siano sentiti impreparati anche coloro che hanno preso il potere: non si aspettavano di riuscirci in così breve tempo. Fino a quel momento avevano guidato solo una piccola provincia, quella di Ibdil: dirigere, praticamente all’improvviso, un intero Paese è però un’altra cosa. Di fronte a quanto accaduto bisogna evitare di essere esageratamente ottimisti o pessimisti; personalmente nutro un cauto ottimismo. Certamente ciò che oggi posso dire è che il futuro della Siria, dopo 54 anni di dittatura, è nelle mani dei siriani. Ed è una cosa buona».
Quali sono le maggiori difficoltà che deve fronteggiare la popolazione?
«La Siria è un Paese distrutto e la ricostruzione non è ancora cominciata. Vi sono tredici milioni di profughi, più della metà della popolazione non vive nella propria casa. Centomila persone sono scomparse. Le principali infrastrutture – a cominciare da ospedali e scuole – sono distrutte o gravemente danneggiate; la corrente elettrica viene erogata solo per due al giorno. L’economia è al collasso. Anche il tessuto sociale è gravemente compromesso, c’è molta corruzione, manca sicurezza. E manca lavoro, c’è povertà. Questa è la Siria che i nuovi leader del Paese si trovano a dover guidare e ricostruire. La strada è tutta in salita: anzi, è più di una salita: è un’ arrampicata su una parete rapidissima. Vi è poi l’altro grande problema: la Siria, sinora, è stata un mosaico di etnie e religioni: ora questo mosaico traballa, dunque bisognerà che si lavori a costruire unità. Però, e lo ribadisco, dopo 54 anni i siriani hanno per la prima volta la Siria nelle loro mani. Pur distrutta, essa potrà essere come loro la vogliono. Certo, hanno bisogno dell’aiuto della comunità internazionale. Desidero fare un accorato appello affinché la comunità internazionale tolga le sanzioni economiche imposte alle Siria».
Vi sono segnali che lasciano intendere che ciò accadrà?
«Sì, qualche settimana fa è stato compiuto qualche passo dall’amministrazione degli Stati Uniti, il Paese che ha imposto le sanzioni più dure: non conosco i dettagli tecnici, so che si è intervenuti nel campo delle transizioni finanziarie, alleggerendo le disposizioni che sino a quel momento erano in vigore. Anche l’Unione Europea deve fare la sua parte, naturalmente».
Subito dopo aver preso il potere, i nuovi leader hanno voluto rassicurare le autorità cristiane promettendo una Siria inclusiva. Ci sono stati sviluppi da allora?
«Sì: dopo aver incontrato le autorità religiose cristiane di Aleppo e Homs, il 31 dicembre Al-Jolani ha invitato le autorità religiose cristiane del Paese nel suo palazzo, a Damasco, e ha rinnovato la promessa di una Siria inclusiva, in cui c’è posto per tutti. Ciò lascia ben sperare per il futuro. Usciti da quell’incontro, noi cristiani eravamo animati da un cauto ottimismo: ed è ancora così. Tuttavia i fedeli cristiani hanno ancora paura, ed è comprensibile. Un conto è il dialogo aperto e costruttivo tra leader religiosi, un conto è la vita di tutti i giorni, nella quale, ad esempio, può capitare che una ragazza cristiana a passeggio a capo scoperto sia guardata male e criticata».
Quale appello ha fatto ai cristiani?
«Negli ultimi 14 anni di guerra, più di due terzi dei cristiani sono emigrati: è la ferita più grande della comunità cristiana della Siria, che si aggiunge alle persecuzioni, alle minacce, alle violenze. Dopo quanto accaduto l’8 dicembre, ho fatto un appello ai cristiani invitandoli caldamente a restare, pur riconoscendo che, naturalmente, ciascuno è libero di partire o rimanere. E ho fatto un appello anche a quanti sono emigrati, affinché facciano ritorno, se possono. I cristiani devono essere in prima fila nella ricostruzione della Siria, in quanto cittadini a pieno titolo di questo Paese. Non è tempo di piangere, è tempo di rimboccarsi le maniche e lavorare insieme, con spirito ecumenico, per il bene comune. È importante che i cristiani diano il loro qualificato contributo anche alla redazione della nuova Costituzione. Chi ha competenze in questo ambito, si faccia avanti. Dopo la seconda guerra mondiale l’Europa ha avuto grandi statisti: penso a De Gasperi, a Schuman, dichiarato venerabile, ad Adenauer. Spero che anche in Siria sorgano figure di quello spessore. Purtroppo, la popolazione, dopo 54 anni di dittatura, ha perso l’attitudine all’impegno politico. Occorre recuperare il tempo perduto. Prima della dittatura, però, vi sono state figure politiche significative, esiste dunque una tradizione: va ripresa».
Mentre la Chiesa celebra il Giubileo, lei cosa spera?
«In settembre parlando con il Papa del Giubileo, gli confidai che in Siria la speranza era morta, soprattutto nei giovani. Gli dissi inoltre che speravo che la Chiesa universale pregasse per il ritorno della speranza nel cuore dei siriani. Poi, dopo l’8 dicembre, d’un tratto, dalle macerie, è spuntato il fiorellino della speranza. Le persone hanno ricominciato a sperare e a respirare aria di libertà. Ma questo fiorellino, così tenero, è ancora piccolo, debole, bisogna proteggerlo. Io mi auguro vivamente che la Siria sia concretamente aiutata dagli altri Paesi a rialzarsi; attualmente la comunità internazionale mostra cauto ottimismo e usa un’espressione inglese: “wait and see”, aspetta e vedi. Ma i siriani hanno bisogno adesso di pane, di medicine, di lavoro! L’espressione giusta è: “work and see”, lavora e vedi. È questo l’atteggiamento che dovrebbe avere la comunità internazionale. San Paolo VI, nel 1967, diceva che la pace ha un nuovo nome: sviluppo. Aiutiamo la Siria a rimettersi in piedi, a ricostruirsi: lo sviluppo porta la pace».
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