Skip to content
Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (19 dicembre 2024)
Catt
  • La storia di Indi ci insegna che la fiducia tra medici e genitori è fondamentale
    COMMENTO

    La storia di Indi ci insegna che la fiducia tra medici e genitori è fondamentale

    di Silvia Guggiari La piccola Indi Gregory è morta lunedì scorso in un hospice nel Regno Unito, dove era stata trasferita a seguito della decisione dei giudici di staccare i macchinari che la aiutavano a respirare dalla nascita, avvenuta solamente 8 mesi fa. La sua è solo l’ultima drammatica storia che ricorda quella di Charlie Gard, di Alfie Evans, di Archie Battersbee e di chissà quanti altri bambini rimasti nell’anonimato. Storie che smuovono la coscienza di tutti, facendo emergere interrogativi profondi sul senso della vita e sul valore delle cure, che abbiamo posto al dottor Angelo Selicorni, genetista, esperto in malattie rare e primario del reparto di pediatria dell’Ospedale Sant’Anna di Como. Il dottor Angelo Selicorni. «Dobbiamo considerare che ci sono delle condizioni, come quella di Indi, ma la lista potrebbe essere lunga, che hanno per loro natura una sopravvivenza limitata e contro le quali purtroppo ad oggi la medicina non ha delle armi valide. Nessuno mette in dubbio che queste vite limitate non abbiano lo stesso valore di qualunque altra vita, ma in queste circostanze, il voler bene a un bambino non vuol dire in senso assoluto dargli tre mesi di vita in più, ma vuol dire garantirgli una qualità di vita migliore possibile». Un percorso delicatissimo, diverso da famiglia a famiglia, all’interno del quale, spiega il dott. Selicorni, i medici non devono mai dimenticare di coinvolgere i genitori «che si trovano in una situazione inattesa con una prognosi così drammatica. È chiaro che per un genitore è difficilissimo pensare di accettare la morte del proprio figlio: da parte nostra non devono mai mancare le cure, interrogandosi sempre su quale sia il bene del bambino. Se si crea sintonia ed empatia tra i medici e la famiglia, quando giungono i momenti più delicati c’è una fiducia reciproca e con l’ascolto gli uni degli altri si arriva a stabilire quale sia il percorso migliore per gestire il periodo critico che in alcuni casi può essere anche una fase terminale». Le è mai capitato di trovarsi nella situazione di dover decidere se valeva la pena proseguire le cure o meno?«Purtroppo sì. In questi casi, fortunatamente, si era creata una completa sintonia con la famiglia: insieme abbiamo deciso come accompagnare il bambino in maniera dignitosa, in modo che non soffrisse e che potesse essere goduto fino all’ultimo respiro dai suoi cari, e riconoscendo ai genitori che quello che sarebbe servito per prolungare l’esistenza del bambino avrebbe procurato maggiore sofferenza. Questo perché purtroppo l’obiettivo della cura di questi bambini, ad oggi, non è la guarigione ma è la qualità della vita: solo vedendola in quest’ottica si può capire che in certe situazione prolungare la sopravvivenza non è qualità e soprattutto non è amore». Tornando alla vicenda della piccola Indi, cosa l’ha colpita? «Non conoscendo nei dettagli la storia di Indi, non sappiamo come si è evoluto il rapporto tra i medici e i genitori; certamente, da come è apparso sulla stampa, non vi era sintonia tra quello che i medici proponevano e pensavano e quello che la famiglia era pronta ad affrontare. Non si è creato, impossibile dire perché, quel clima di ascolto reciproco fondamentale in queste situazioni particolari. La riflessione più importante che questa storia pone e che sottolinea in maniera chiarissima è innanzitutto che porre diagnosi di una malattia inguaribile, come possono essere anche tante malattie rare, non vuol dire sancire che di quel paziente non ci si possa e debba prendere cura; e proprio questo prendersi cura diventa lo strumento per creare quell’empatia e quell’alleanza tra chi segue il bambino e la famiglia che permette, nel momento più difficile, di guardarsi negli occhi con una pena nel cuore indescrivibile e di riconoscere che la cosa migliore per il bambino non è essere aggressivi, ma è quella di farlo passare a miglior vita senza nessuna sofferenza». di Silvia Guggiari

    News correlate