È in corso in queste ore, presso la chiesa del Sacro Cuore a Lugano, il Convegno internazionale, frutto della collaborazione di varie istituzioni ticinesi e della Facoltà di teologia dell’Università di Friborgo «Sandro Vitalini: la teologia per la vita e la cultura di tutti».
Tra i relatori della mattinata ritroviamo anche Angelo Reginato, pastore e biblista presso la Chiesa Evangelica Battista di Lugano, che con il suo intervento ripercorre il contributo di don Vitalini all’ecumenismo. Riproponiamo di seguito l’intervista che andrà in onda domenica a “Chiese in Diretta” alle 8.30 su Rete Uno alle e realizzata dalla collega Chiara Gerosa.
Angelo Reginato, parlando di Don Vitalini, qual era la sua visione di Chiesa?
«Devo premettere che io non l'ho mai incontrato personalmente, però ho letto i suoi testi e ne sono rimasto anche affascinato. Mi sembra di capire che la sua visione di Chiesa attingeva chiaramente alle fonti evangeliche. Ed era anche una visione di Chiesa conciliare. Faccio riferimento a questo momento chiave della Chiesa cattolica che è stato il Concilio Vaticano II proprio perché è stato un momento di rinnovamento nel pensarsi come Chiesa e come un'esperienza di comunione. Ecco, mi sembra che tanti aspetti della teologia di don Vitalini abbiano attinto un po' a questa immagine sorgiva, che ricorda anche la Chiesa degli Atti e le prime comunità. È una Chiesa di comunione, che si unisce, che crea comunità attorno alla Parola, con il desiderio di non sentirsi padroni della verità ma suoi discepoli».
Proprio a proposito del non sentirsi padroni della verità, Vitalini era molto aperto e aveva molti rapporti con le altre Chiese. Come legge questo fatto?
«Esattamente, il rapporto con le altre Chiese fu per lui caratterizzante, come emerge nei suoi scritti. In prima battuta l’atteggiamento verso la diversità ci porta a mettere delle barriere, a difenderci; per lui invece valeva l’attitudine a voler comprendere e a entrare in relazione poi diretta, concreta con le altre Chiese».
Che cosa lo muoveva secondo lei in questa direzione?
«Secondo me era proprio il fatto di attingere a quell'evangelo che parla del mistero dell'unità non solo come un problema di diplomazia tra organi differenti, ma come la passione stessa di Gesù. Nel discorso dell'Evangelista Giovanni, l'unità è la condizione di credibilità affinché il mondo creda:
allora non basta essere credenti, ma bisogna essere credibili e per esserlo occorre partire da questa unione».
Vitalini era aperto anche verso altre religioni, oltre che verso altre Chiese?
«Sì, attingendo dalla rivelazione biblica questo aspetto ospitale, cioè questa capacità di mettersi in ascolto e di valorizzare il meglio, che è un po' una qualifica del nostro Dio; l'Incarnazione infatti dice questo amore per il mondo in tutte le sue espressioni. Certo, qui c'era anche una curiosità intellettuale; c'era di fondo in lui una temperie umana capace appunto di cogliere il positivo invece che avere paura di misurarsi con chi è troppo differente».
Cosa potrebbe dire don Vitalini ad ognuno di noi oggi e anche soprattutto a chi fatica ad avere una vita spirituale o addirittura fatica proprio con la Chiesa in quanto istituzione?
«Leggendo i suoi scritti, ho stilato una piccola classifica delle parole che vi ricorrono di più. Una parola che ritorna molto spesso è il concetto di “essenzialità”; il suo sguardo sulla fede mirava a cogliere ciò che è essenziale, ciò che pertiene cioè il cuore. È forse questo che ci aiuta nel dialogo ecumenico; è bello che tutte le Chiese abbiano le proprie tradizioni, le proprie sottolineature, l'ecumenismo non è infatti diventare tutti uguali ma è comunione nella differenza. Però è altrettanto importante che al di là di queste differenze confessionali ci sia un nucleo essenziale che è condiviso.
Questo linguaggio dell'essenziale funziona anche nel rapporto al di fuori delle Chiese e con le altre religioni, ma anche con chi non professa nessuna religione perché in fondo l'essenziale dice l'umano che ci accomuna».
Stiamo dunque parlando di un teologo molto fine ma che era anche capace di parlare a tutti?
«La sua modalità prevedeva confrontarsi con quel Dio che per noi si è abbassato, che si è fatto carne. Vitalini lo chiamava un “atteggiamento viscerale” da parte di Dio. Questo Dio che è padre e madre e che è “viscera di misericordia”. Ecco, è proprio attingendo alla sapienza biblica e alla riflessione teologica che Don Sandro ha poi portato avanti un cristianesimo capace di abbassarsi e di camminare con tutte le donne e gli uomini del proprio tempo».
C’è qualche altro aspetto dei suoi scritti che l’ha colpita?
«Oltre al tema dell'essenziale mi ha colpito la sua concretezza: pur da teologo era convinto della necessità di avere il coraggio di alcune scelte pratiche. Lo pensava ad esempio per quanto riguarda il diaconato femminile, ma lo ripeteva anche nel dialogo ecumenico e sul tema dell’intercomunione, cioè sul fatto che ci sia un'ospitalità eucaristica tra le diverse Chiese. Guardando al passato ci siamo fatti la guerra nel nome di un Dio che diceva di amare persino i nemici. Per don Sandro era ora di mettere in piedi un ecumenismo che guardasse avanti, capace di confronto e di domande importanti; un ecumenismo che diventasse non solo una importantissima via di riconciliazione dei cammini dopo la separazione dolorosa del passato, ma diventasse anche un laboratorio di discernimento per una presa in carico comune dell'evangelo come responsabilità per i cristiani del mondo d'oggi. Mi sembra che il modo di muoversi, di scrivere, di pensare di Don Vitalini andasse un po' in questa direzione anche molto concreta, pastorale e pratica».
L’intervista completa domani a “Chiese in diretta”.
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