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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (31 gennaio 2025)
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    Don Luigi, "Gigi", Verdi a Lugano: "I gesti di cura e la vita, essenza del cristianesimo"

    di Laura Quadri

    Sullo schermo alle sue spalle, durante la serata che mercoledì scorso lo ha accolto in Ticino per la seconda volta, scorrono l’immagine di Montale e Alda Merini, risuonano le parole di cantautori, o la preghiera di una suora. Tutte “tracce” di quell’umanità vera e sincera che attira da sempre lo sguardo di don Luigi “Gigi” Verdi, ospite a Besso, su invito del parroco e amico don Marco Dania.

    La “sua” Romena, nel cuore della Toscana, antica pieve medioevale a cui ha ridonato la vita, è questo: “Un laboratorio di umanità, dove non accogliamo, ma raccogliamo, raduniamo esperienze di vita e sperimentiamo un nuovo modo di incontrarci, di stare insieme e pregare. Si accoglie tutti; fondamentalmente secondo due principi: si cura la bellezza e la gioia del ritornare contadini”. Diverse decine le persone accorse nel salone parrocchiale, chi da vicino, chi più da lontano, per ascoltare dalla viva voce del sacerdote toscano “come non spegnere la gioia”. Ed è proprio questa la prima domanda che gli poniamo.

    Don Luigi, a Romena accogliete, spesso, persone che stanno vivendo un momento di difficoltà: può trattarsi della perdita di un figlio o di qualcuno che avverte la necessità di fermarsi e ripartire. E di fatto, dopo una crisi, da dove si riparte?

    «Ci sono diverse immagini che si possono associare alla crisi. Quando una persona è in crisi, anzitutto, è come in un mare agitato: più ti agiti più affoghi. La saggezza è trovare allora un punto di pace nella tempesta. La crisi assomiglia però anche a un terremoto che ti scombussola. E allora il posto più sicuro è la strada, metafora del fatto che si va avanti se torni a camminare e ad andare incontro alla gente. Ma ancora più fondamentale, se soffri, è credere a quello che non vedi. Devi credere che dopo l’inverno c’è la primavera. Quando ami qualcuno ci si fa, infatti, due promesse d’amore, come ha fatto Gesù con noi: ci si promette che questo amore non lo abbatterà niente e nessuno e che non ci si lascerà mai. Ricordiamoci Gesù: “Non vi lascerò mai soli”. Perché allora avere paura? Che il mondo abbia paura lo capisco, mentre non sopporto che siano i cristiani a nutrire questo sentimento. Credere infatti non equivale a una certezza razionale, ma è la fede cantata da San Giovanni della Croce nelle sue poesie: chiudere gli occhi e procedere al buio. La fede vera è il Venerdì Santo, quando tutto crolla e le donne preparano i loro profumi per ungere il corpo di Cristo. È quel figlio che muore e quel genitore che continua, al posto suo, a portare avanti la vita».

     Nelle sue parole si percepisce la presenza del tema giubilare: la speranza.

    «Distinguerei la speranza dall’ottimismo. Quando ci fu il lockdown vedevamo questi cartelli: “Andrà tutto bene”. Andrà tutto bene – mi verrebbe da dire – se niente sarà come prima. Ma il vero punto è la speranza vera. E chi ha il diritto di parlare di questa speranza? Nella mia esperienza posso dire: chi è disperato. Quando uno è in questa condizione, spera concretamente. Avrà forse una sola piccola speranza, ma questa gli apre un mondo, a differenza di chi ha tutto e spera mille cose futili. La speranza cristiana è questo: sperare contro ogni speranza e sperare al di là di tutte le piccole speranze banali. Certo, si tratta di una lotta con noi stessi, una fatica, una resistenza. La persona resiliente prende la forma di quello che c’è, si adatta. La resistenza è di coloro che amano qualcuno o qualcosa più di se stessi. Penso ad esempio alle madri che accudiscono figli ammalati: la fedeltà alla vita, il non cedere mai. Questa è la speranza cristiana».

    Quali sono le “ferite” del mondo che le fanno più male?

    «A me dà fastidio l’indifferenza, la stupidità, la violenza sulle anime e sui corpi. Nel mondo c’è una dualità emergente: le persone che restano indifferenti e pochi che dicono come don Milani I care, “mi importa”. Non c’è più tempo: o stai da una parte o dall’altra. Noi cristiani dobbiamo tornare a dire che ci sta a cuore l’umanità: mi stanno a cuore i giovani che si tolgono la vita, il pianeta distrutto. Ecco di nuovo la speranza cristiana: è credere anche se la maggioranza la pensa differentemente. Devi avere fiducia, sempre, che la vita non può finire così».

    Cosa impedisce all’uomo e al credente di adottare questo atteggiamento di cura?

    «Mi piace ricordare una frase di Pasolini: “L’astrazione è il male di quest’epoca”. I contadini, un tempo, vedevano una cosa, un segno della natura, e si muovevano, si mettevano in movimento. Noi oggi parliamo e ragioniamo troppo. Le persone più belle, invece, come Gesù o San Francesco, non solo dicono quello che pensano ma fanno quello che dicono. Questo perché il cristianesimo è la più corporale di tutte le religioni: il suo cuore è l’Incarnazione. Così anche fermarci troppo sul Vangelo per valutarne la “convenienza” non è un bene. “Amate i vostri nemici”: amiamoli!».

    Come si ritorna, infine, ad amare la vita, nonostante le sue contraddizioni?

    «Nella vita si cambia in tre soli modi: perché non ne puoi più; perché hai fame di qualcosa; o perché, infine, ti sei innamorato di un livello di vita più alto. Il cristianesimo è questo: innamorarsi ancora. Io però non mi sono innamorato di un’idea di Gesù, ma di come camminava, piangeva, toccava il letto del bambino morto. Ci si innamora dei gesti. E allora come può il cristianesimo tornare a se stesso? Con i gesti, con la vita. Dobbiamo tornare a curare la tenerezza dei gesti, la bellezza e, soprattutto, le relazioni fra di noi».

    Informazioni sulla comunità di Romena: https://www.romena.it/

     

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