di Jacques Berset, traduzione di Lisa Bigatto, entrambi collaboratori di «Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACN)»
Dal 20 al 23 aprile, su invito dell’Opera caritativa cattolica «Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACN)», l’arcivescovo della diocesi melchita di Saïda e Deir el-Qamar (Libano), Mons. Élie Béchara Haddad, ha visitato tre parrocchie del Mendrisiotto: quella di Rancate, dove è stato accolto e ospitato da don Jan Luchowski, quella di Mendrisio dove è stato accolto da don Claudio Premoli e don Stefano Bisogni, e quella di Riva San Vitale dove è stato accolto da don Carlo Scorti. In seguito, si è recato nella Svizzera francese, dove ha celebrato la S. Messa nella chiesa di Sainte Thérèse e nella Basilique Notre-Dame di Losanna, oltre che nella Basilique Notre-Dame di Ginevra. Sono stati momenti preziosi e anche l’occasione per incontrare i fedeli donatori dell’Opera caritativa cattolica, fortemente impegnata nel sostegno alla popolazione libanese.
Decine di migliaia di abitanti dei villaggi hanno dovuto abbandonare le zone di frontiera del sud del Libano, bombardate quasi quotidianamente dall’esercito israeliano dopo l’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre. Mons. Élie Béchara Haddad, arcivescovo greco-cattolico melchita di Saïda, l’antica Sidone, condanna la tattica della terra bruciata che si aggiunge alla grave crisi economica che persiste dall’ottobre 2019 e che sta causando un’emigrazione di massa, che, in proporzione, colpisce soprattutto la minoranza cristiana. Dallo scorso 7 ottobre, i combattimenti tra le milizie libanesi di Hezbollah e l’esercito israeliano hanno già provocato quasi 400 vittime tra i libanesi, tra cui oltre 70 civili. Nel sud del Libano, gli abitanti cristiani di Rmeich e di Ain Ebel e quelli del villaggio misto di Debel sono rimasti nonostante i pericoli.
Nella città di Tiro, sede di una grande comunità cristiana, la vita procede in modo relativamente normale. Ma i villaggi di Alma el-Chaab, Aïta el-Chaab, Yaroun e Safad, ad esempio, sono stati abbandonati: la gente, sottoposta a bombardamenti ininterrotti, si è spostata più a nord, in particolare a Beirut.
«Molti sono agricoltori: le loro case spesso sono state distrutte, i loro frutteti e i loro raccolti sono stati bruciati dalle bombe al fosforo bianco sganciate illegalmente da Israele. Gli ulivi si sono seccati, sono morti, i campi sono avvelenati. Queste persone non sanno cosa accadrà loro!» In alcune località, intere famiglie se ne sono andate, lasciando una sola persona a prendersi cura dei loro beni e a proteggerli dai furti.
Il 64enne prelato libanese ha visitato la Svizzera in un momento di forti tensioni regionali dovute alla guerra a Gaza. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che estromettere Hezbollah dal sud del Libano è un obiettivo nazionale. «Netanyahu vuole “punire” il Libano, ma sa benissimo che il Libano non può fare nulla contro Hezbollah, che agisce autonomamente… Non è la prima volta che l’intero Libano paga per questa situazione».
Oggi, in Libano, la stragrande maggioranza dei libanesi non vive, ma sopravvive, soprattutto grazie agli aiuti stranieri: le famiglie molto povere sono in aumento e non sempre possono mangiare a sufficienza. «Solo un pasto al giorno e la carne, se c'è, a malapena una volta alla settimana». La diocesi melchita di Saïda e Deir el-Qamar, guidata dal 2007 dal vescovo Élie Béchara Haddad, un tempo contava 80.000 fedeli, ma ora ne ha appena 40.000… I villaggi cristiani della sua diocesi situati a est di Saïda, sono stati distrutti tra il 1982 e il 1985 dai combattenti drusi e dalle milizie sunnite che si sono scontrati con i miliziani cristiani delle Forze Libanesi durante la «guerra della montagna», scoppiata il 3 settembre 1983 dopo il ritiro dell’esercito israeliano. In alcuni villaggi drusi e cristiani, gli scontri sono iniziati non appena Israele ha invaso il Libano il 6 giugno 1982.
«La nostra diocesi, che nel frattempo è stata ricostruita, è stata nuovamente duramente colpita… Il pericolo deriva dalla destabilizzazione del Paese, che spinge i libanesi a emigrare in Canada, negli Stati Uniti e in Australia, ma anche in Francia, in Belgio e in Svizzera. Oggi i cristiani costituiscono solo un terzo della popolazione libanese, ma si prevede che il numero diminuirà ulteriormente. Se ne vanno i giovani ma anche intere famiglie. Fortunatamente, riceviamo aiuti esterni per le nostre istituzioni - scuole cristiane, ospedali, dispensari, Caritas locale. La diaspora ci sta aiutando, organizzazioni come «Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACN)», l’Œuvre d’Orient e altre ONG. Tutto ciò stabilizza la situazione, ma non risolve il problema, perché il Libano è soggetto a interferenze esterne che non gli permettono di dirigere il proprio destino».
Per Mons. Haddad, il Paese è preso di mira per le sue ambite risorse di gas (il giacimento di Karish, situato ai margini della zona economica esclusiva del Libano). «Israele non vuole che il Libano diventi un Paese petrolifero che possa vivere comodamente grazie alle sue risorse». Benché egli consideri gli Hezbollah come dei compatrioti - «li rispettiamo e ci accordiamo sulle questioni umanitarie» - respinge invece il loro desiderio di «iranizzare» il Paese. «Sono completamente d’accordo con il patriarca maronita Béchara Boutros Raï, che vuole che il Libano resti fuori da tutti i conflitti internazionali».
Mentre molte famiglie cristiane sono fuggite verso regioni più sicure, i sacerdoti e i religiosi sono tuttora presenti per assistere coloro che sono rimasti a prendersi cura delle loro case, o che sono troppo anziani o fragili per essere spostati. ACN sta aiutando in questa situazione di emergenza, fornendo pacchi alimentari, assistenza medica e accesso all’istruzione online per gli studenti cristiani della regione.
Monsignor Haddad è arcivescovo della Chiesa greco-cattolica melchita, una chiesa di rito bizantino unita a Roma dal XVIII secolo, che si considera una «Chiesa-ponte» tra le comunità – cattolici e ortodossi, cristiani e musulmani.
Fin dalla sua fondazione, la Chiesa melchita è portatrice di una cultura basata sulla tolleranza e sulla costruzione di ponti, sottolinea Mons. Élie Béchara Haddad. «Attualmente, in alcune eparchie, i musulmani ricorrono ai nostri vescovi per far sì che agiscano da mediatori tra le diverse comunità musulmane.
Ma le sfide sono lì, nella nostra vita quotidiana, si tratta di un rapporto che deve essere costruito e coltivato ogni giorno e nel corso degli anni. Il fondamentalismo e le varie correnti integraliste minacciano i legami interreligiosi e mettono a repentaglio la “convivenza”».
Mons. Élie Béchara Haddad è nato il 28 gennaio 1960 ad Ablah, nella valle della Beqāʿ. Giovanissimo è entrato nel convento Santo Salvatore dell’Ordine basiliano del Santissimo Salvatore, a Joun, vicino a Saïda. È stato ordinato sacerdote il 9 agosto 1986, dopo aver ultimato gli studi filosofici e teologici all’Università dello Spirito Santo di Kaslik (1980-1983) e alla Pontificia Università Gregoriana di Roma (1983-1985). Ha conseguito il dottorato in diritto canonico e civile presso la Pontificia Università Lateranense di Roma nel 1994. È autore di diversi libri e articoli, soprattutto nell’ambito del diritto canonico. Eletto dal Santo Sinodo della Chiesa greco-cattolica melchita l’11 ottobre 2006, Mons. Élie Béchara Haddad è stato ordinato arcivescovo di Saïda e Deir el-Qamar il 24 marzo 2007 dal Patriarca Gregorio III Laham, assistito dall’arcivescovo Georges Kwaiter e dal metropolita Joseph Kallas. Mons. Haddad riconosce che le relazioni tra la minoranza cristiana e la maggioranza musulmana sono migliorate dopo la sanguinosa guerra civile in Libano (1975-1990) e l’invasione israeliana del luglio 2006. I leader cristiani e musulmani si invitano a vicenda alle rispettive feste e c'è un comitato congiunto per le relazioni e gli studi tra musulmani e cristiani. Ma a Saïda, la piccola comunità cristiana, colpita dall’emigrazione, ha poca influenza sulle decisioni politiche importanti della città. Il vescovo Haddad ritiene che siano le iniziative di solidarietà prese nella vita quotidiana ad unire i credenti, molto più dei discorsi politici.
Intervista a fra’ Michele Ravetta, cappellano delle strutture carcerarie cantonali.
Un centinaio di persone, il 15 dicembre, hanno fatto un percorso dal sagrato della chiesa di S. Rocco fino alla chiesa di S. Giorgio, dove si è potuto ammirare, in una grotta, la rappresentazione vivente della Natività.
Raccolti CHF 26'500 a sostegno delle persone in difficoltà in Ticino. I fondi saranno destinati a due realtà locali che incarnano i valori di solidarietà ed assistenza: alla Lega Cancro Ticino (in aiuto ai bambini) ed alla Fondazione Francesco (di fra Martino Dotta)