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Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (7 giugno 2025)
CATT
  • L’abate Mauro Lepori: “Le nostre vite ferite dal coronavirus possono ripartire più forti in umanità”

    “Personalmente, il pensiero di chi ora

    vive questa prova nella solitudine, che soffre e muore nella solitudine, non mi

    lascia tranquillo, e lo porto in me come una ferita aperta che metto davanti al

    Signore mendicando la sua presenza e tenerezza per ognuno”, così l’abate generale dell’ordine dei cistercensi, il ticinese Mauro Lepori, da Roma,

    dove si trova nella Casa generalizia, ci trasmette il pensiero che gli sta più

    a cuore in questo momento.


    Abate Lepori, il

    coronavirus ci ha tolto la dimensione comunitaria o l’ha improvvisamente

    ridotta a poche persone quello del nucleo famigliare. Come vivere questa

    situazione anomala?

    Come occasione di

    scoprire una comunione più profonda con tutti. Paradossalmente, ora che non

    possiamo quasi uscire di casa, che non possiamo viaggiare, frequentare luoghi

    pubblici, darci la mano, ecc., si percepisce una solidarietà universale,

    profonda, una coscienza che siamo uniti non solo dalla stessa prova, dallo

    stesso pericolo, ma da una reale comunione di vita, di pensiero, di

    compassione. Certo, ora affiora anche quanto la società moderna non educa

    veramente a questo, quanto siamo impreparati a stare con gli altri, persino con

    i nostri cari in famiglia. Prima c’era sempre una scusa plausibile: il lavoro,

    gli impegni, la scuola, lo sport, ecc. La fretta non è tanto il contrario della

    calma, ma dell’incontro, della relazione, dell’ascolto dell’altro,

    dell’attenzione reciproca. Ora tutta l’agitazione esteriore è venuta meno e

    forse molti si scoprono relazionalmente immaturi, incapaci di stare con l’altro

    senza far qualcosa d’altro che la relazione stessa, magari vissuta in un

    silenzio denso di comunione. Per questo è

    importante aiutarci a non ridurre la solidarietà che

    comunque sentiamo, a un “noi” che sia opposto a degli “altri”: l’altra

    famiglia, l’altra città o regione, l’altra nazione, l’altro continente.


    Nella solitudine emergono le paure, le

    ansie, le fragilità fisiche e spirituali. Quale parola di consolazione ci offre

    la fede?

    Quando Gesù dormiva sulla

    barca su cui si trovava con i discepoli, e per la tempesta rischiavano di

    affondare, dopo che l’ebbero svegliato e che lui ebbe calmato tutto con una

    sola parola, ha posto ai discepoli due domande: “Perché avete paura? Non avete

    ancora fede?” (Mc 4,40). Sono due domande che in questa circostanza dobbiamo

    tener vive in noi, cioè lasciarcene veramente interrogare. Prima magari pensavamo

    di non dover aver paura di niente, o credevamo di avere abbastanza fede perché

    nulla la metteva alla prova. Ma in fondo il problema non è tanto la paura o la

    fede in sé: il problema è il nostro rapporto con Dio. Che importanza esistenziale ha il Signore nella nostra

    vita? Cosa c’entra Gesù Cristo con la nostra vita reale? E con la vita reale

    del mondo? I discepoli svegliano Gesù quasi rimproverandolo:

    “Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (Mc 4,38). Ma è come se Gesù

    rivoltasse la domanda, il rimprovero. Come se ci dicesse: “Ma a voi importa che

    io vi salvi?” Credo che questo momento, dobbiamo proprio viverlo sentendoci

    provocati da Cristo in questo senso, soprattutto in quanto cristiani, in quanto

    Chiesa.

    Per il cristiano Gesù è il salvatore. Cosa vuol dire in questi giorni?

     Il Figlio di Dio ci salva dal peccato e dalla

    morte, ci salva dal non-senso della vita, ci salva dalla solitudine e

    dall’odio, e questo da duemila anni, e quasi non ce ne siamo accorti, o abbiamo

    vissuto in modo ridotto la portata di questa Salvezza universale che Lui ci ha

    donato e ci dona costantemente morendo in Croce per noi e risorgendo dai morti.

    Ci importa questo? Ha un effetto questo nella nostra coscienza e nella nostra

    vita? Cambia questo fatto il nostro sguardo su tutto quello che accade, di

    bello o di brutto, di lieto o di doloroso?

    L’epidemia ha messo in prima pagina una realtà da cui nessuno di noi prima o

    poi può fuggire: che siamo fragili, mortali, che non abbiamo la nostra vita

    nelle nostre mani, nonostante tante illusioni o tante censure. La

    fede è l’importanza reale che diamo alla Salvezza di Cristo. Reale nel senso

    che la fede ha senso solo se confrontata alla vita, se calata nel dramma della

    vita, delle circostanze in cui ci troviamo. Per questo la situazione attuale è

    una grande opportunità per permettere a Gesù Cristo di risvegliare a

    riaccendere in noi la fede. Gesù non ci rimprovera di non avere fede

    lasciandoci lì nudi e indifesi: rimprovera la nostra mancanza di fede perché ce

    la vuole donare, perché vuole riaccenderla in noi, e lo fa subito anche

    salvandoci subito dalla tempesta del mare o dall’epidemia di coronavirus.

    Qualcuno davanti alla pandemia ha tirato in ballo il

    castigo divino. Come mai teorie come questa ogni tanto appaiono nella storia,

    sempre nei momenti di crisi? Dio è così?

    Non sono Dio per

    saperlo, ma non riconosco in questa immagine quel Dio che ho incontrato in Gesù

    Cristo che mi ha rivelato il Padre. Chi legge nelle catastrofi del mondo un

    castigo divino dovrebbe cominciare con il domandarsi perché allora Dio non

    colpisce lui per primo, per lo meno prima di tanti innocenti che vediamo

    soffrire e morire. Il nostro problema non è quello di credere in un Dio che ci

    castiga, ma in un Dio che ci ama infinitamente, che è pieno di misericordia e

    tenerezza, e di vivere di questa fede sempre, sia che tutto vada bene sia che

    tutto vada male. L’immagine di un Dio che suscita timore non ci aiuta a

    crescere in un rapporto di amore con Lui, ed è solo questo che Dio vuole da

    noi. È morto in croce per rivelarci che Lui da noi mendica solo amore. “Ho

    sete!” ha detto poco prima di morire. Santa Madre Teresa di Calcutta ha vissuto

    tutta la sua vita consumandosi per i più poveri e miseri proprio perché ferita

    e attirata da questa parola di Gesù in croce, da questa sua sete di amore che

    arde in ogni povertà e miseria umane.

    C'è poi la morte, un'alternativa che improvvisamente

    si paventa, anche quando per età e salute, la si riteneva lontana. Come

    guardare con fede alla dimensione della morte, la propria e quella di chi ci è

    caro?

    Guardare

    con fede la morte vuol dire guardarla alla luce del Risorto, alla luce di colui

    che ha vinto la morte, che ha reso la morte, la sua e la nostra, una nuova

    nascita. L’uomo non è mai riuscito e non riuscirà mai a sconfiggere la morte

    come il venir meno e la fine di questa vita. Ma con Cristo la morte cambia

    volto, non è più nemica. L’aspetto più doloroso della morte è la solitudine, e

    in questi tempi è proprio la cosa che più ci ferisce, che tanti debbano morire

    in solitudine, cioè lontano dai loro cari, e i loro cari lontani da loro, ciò

    che in un certo senso è una morte anche per chi sopravvive. Gesù Cristo è

    penetrato fin nell’abisso più profondo di questa nostra morte, di questa

    solitudine, di questo abbandono. Con noi e per noi ha gridato. “Dio mio, Dio

    mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Sal 21,9). Ma è risorto, e questo

    ci annuncia e prova che ormai, proprio dentro la nostra morte, il nostro

    abbandono, la nostra solitudine, Gesù è presente, è con noi, con tutto l’amore

    che Dio è, con tutta la tenerezza paterna e materna di cui ogni uomo ha bisogno

    per questo tremendo passaggio. Per questo possiamo e dobbiamo guardare alla

    morte, dei nostri cari e la nostra, mendicando e accogliendo la presenza del

    Risorto che già ci è donata.

    Quando le nubi di questo momento difficile si diraderanno, lei che umanità sogna di veder riemergere?

    Forse un’umanità più povera, più semplice, più umile, e felice di esserlo. Un’umanità che questa epidemia forse avrà vaccinato dalla lebbra del superfluo, della vanità orgogliosa e superficiale che non si ferma, che non ascolta, che non fa attenzione all’altro, che cerca solo il proprio tornaconto. Un’umanità che avrà perso il gusto dell’effimero e in cui rimarrà una sete di assoluto che scorge e apprezza ogni goccia di rugiada, ogni esile filo di acqua sorgiva di cui la vita è piena, ma non ce ne accorgiamo. Un’umanità che abbia più gusto per la bellezza dei rapporti, dell’attenzione reciproca, a cominciare dalle famiglie, dalle comunità di ogni tipo. Forse anche un’umanità più silenziosa, più calma, meno in competizione, meno sulle difensive, in cui ci si cede il passo con un sorriso. Non dico questo dall’alto in basso: questa umanità la desidero e la chiedo anzitutto per me, ne ho bisogno io, e per primo ho bisogno di convertirmi a tutto questo. Ma mi accorgo che l’arresto impostoci di questo periodo così misterioso della storia ci sta già lavorando dentro, come se stesse zampillando in ognuno di noi una sorgente di acqua profonda e pura. Forse quella che Gesù ha promesso alla Samaritana…

    Cristina Vonzun

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