Skip to content
Parola del giorno rito Romano | Ambrosiano (1 luglio 2025)
CATT
  • COMMENTO

    Commento ai Vangeli della domenica

    Dal giudizio al perdono (Luca 15, 1-3.11-32)

    C’è una evidente correlazione tra ciò che facciamo ed il segno che le nostre azioni lasciano nel mondo. Nel tragitto della linea immaginaria che unisce questi due punti si inseriscono, tuttavia, visioni multilaterali che creano altrettanti, e differenti, punti di vista sulle cose. Gli sguardi dunque come emblemi di una visione soggettiva. E proprio questi sono protagonisti in questa puntata de «Il Vangelo in Casa».

    Lo scenario è sempre villa Turconi, sede dell’Istituto Sant’Angelo di Loverciano e dimora attuale di «don Mino», come continuano a chiamarlo da queste parti. È proprio lui ad introdurre una precisazione sul passo scelto per questa domenica: «Questo brano è noto per contenere quella che tutti conoscono come la parabola del figliol prodigo. Ma una esegesi più attenta la individua, in modo più efficace, come la parabola del padre misericordioso». I personaggi di questa storia sono tre, un padre e i suoi due figli. «Ma di sguardi, in questa parabola, ne incontriamo ben quattro, e tutti diversi » continua monsignor Grampa. «Partiamo da quello iniziale del figlio minore, decisamente a corto raggio, centrato sul presente e spavaldo ed avido nel chiedere anzitempo la sua parte di eredità. Uno sguardo che incontra quello del padre, prodigo - lui sì - nel concedere l’eredità, e incapace di porre un freno all’atteggiamento del figlio». Quel figlio che, dopo aver dissipato tutto e aver conosciuto la povertà, “condividendo il mangime con i porci”, torna a casa con un nuovo sguardo: un po’ per necessità, un po’ per aver imparato la lezione. «A casa ritrova quello del padre, che non aveva mai smesso di cercare all’orizzonte la sagoma del figlio sulla via del ritorno. Uno sguardo che è quello di Dio, che non si ferma al passato e al presente, ma punta lontano e al futuro, è risolutivo, senz’altro responsabile del ritorno del figliol prodigo».

    Dante Balbo sottolinea a questo punto che l’ultimo degli sguardi da analizzare è quello del figlio maggiore. La sua figura è la più difficile da interpretare per noi: è quella a cui istintivamente daremmo ragione. «Certo. E invece in lui risiede il torto maggiore, perché il suo sguardo non è né a corto raggio né lungimirante. È carico di rifiuto, sdegno e rancore. Mi domando» prosegue Pier Giacomo Grampa «se questo non sia lo sguardo dominante nei cristiani praticanti, che in tanti rimproverano a Papa Francesco la sua misericordia, l’apertura, la condivisione dello sguardo del padre. Su tutti questi sguardi siamo invitati a riflettere: come sono i nostri, verso il mondo o verso l’altro? Anche noi siamo chiamati a scegliere, e mi auguro che la Quaresima ci aiuti a scegliere lo sguardo giusto».

    Cristiano Proia

    Con gli occhi del cuore (Giovanni 9, 1-38b)

    Scarsa l’attenzione che l’evangelista riserva all’apertura degli occhi, alla guarigione del cieco, appena due delle 41 righe che compongono il testo. E invece con grande ampiezza l’evangelista racconta l’apertura, nell’uomo guarito, di un altro sguardo, una diversa capacità di vedere. Non è grazie agli occhi riaperti alla luce che il cieco guarito arriva a riconoscere nel suo guaritore Gesù, il Signore. Lo riconoscerà attraverso un percorso che è la fede Del suo guaritore il cieco guarito conosce solo il nome, poi lo riconosce profeta, più avanti ammette che se costui non fosse da Dio, non avesse cioè una particolare relazione con Dio, non avrebbe potuto guarirlo. In seguito dice che è l’Inviato, il Messia, il Figlio dell’uomo fino a giungere al punto culminante quando, gettandosi ai piedi di Gesù, lo riconosce ‘Signore’. Ora finalmente il cuore, l’interiorità vede davvero cioè riconosce il mistero di quell’uomo chiamato Gesù.

    Nel percorso del cieco guarito un ruolo decisivo e direi paradossale è svolto da quanti contestano la guarigione o tentano di demolire la credibilità del guaritore. È grazie a queste contestazioni che la fede del cieco guarito si fa sempre più chiara e sicura. La fede non deve temere le contestazioni anzi può giovarsene come stimoli a pensare di più, ad interrogarsi, a mettere alla prova le proprie convinzioni. E questo non vale solo per il cieco vale anche per noi e per la nostra fede. Il cieco che non ha nome, ci rappresenta. Noi, figli di una cultura che ha nella luce della ragione il suo cardine, figli dell’Illuminismo, siamo invece persuasi di avere buoni occhi capaci di penetrare nella complessa struttura della realtà, conoscerla e modificarla. Le scienze non ci hanno forse aperto gli occhi?

    Ma se non riconosciamo Gesù come nostro Signore, come la luce e quindi senso ultimo della nostra esistenza siamo nell’oscurità. Questa è la nostra condizione. Non basta avere, come oggi abbiamo, una conoscenza sempre più vasta del mondo, è necessaria una luce che indichi la mèta, il traguardo, il senso del nostro vivere. La pagina evangelica ha una conclusione purtroppo omessa dalla lettura liturgica. Accanto al cieco che ha ritrovato la luce vi è un gruppo di Farisei che, pur avendo buoni occhi, sono ciechi. Sono infatti presuntuosamente persuasi di veder bene, e di non aver bisogno di altra luce. Guardiamoci da questa presunzione, riconosciamo sì la grandezza del lume della ragione ma al tempo stesso i suoi limiti. Ricordiamo la parola di Pascal, grande scienziato e insieme grande credente: «L’ultimo passo della ragione è quello di riconoscere che vi è una infinità di cose che la superano» (Pensieri n.267). Facciamo nostra la parola del Salmo tanto cara al cardinale Martini da volerla incisa sulla pietra del suo sepolcro: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118,105).

    Don Giuseppe Grampa

    News correlate